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riscoperte

Soffermandosi troppo sulla morte il ricordo si affievolisce. La Memoria è vita

Francesco M. Cataluccio

Lo sterminio getta un'ombra cattiva su tutto il resto. Invece, dobbiamo tornare a un lavoro ostinato di ricerca e ricostruzione, e perfino a ridere, come con Polanski e Horowitz. La forza di una palla di neve

La settimana scorsa nella regione di Cracovia ha nevicato abbondantemente. Il complesso museale del campo di sterminio di Auschwitz-Birchenau era tutto coperto da uno spesso manto di neve. Un silenzio ancora più irreale avvolgeva tutto, rotto soltanto dal gracchiare di numerose e panciute cornacchie saltellanti. Come sempre in queste settimane c’erano in visita molti studenti, soprattutto italiani: preparati, attenti e motivati, seguiti da bravi insegnanti. Un piccolo gruppo di ragazzi però ha preso a tirarsi palle di neve. Sono stati, giustamente, severamente redarguiti dalle guide polacche: “Sarebbe come giocaste a pallone tra le lapidi di un vostro cimitero!”. In un vecchio film del regista polacco Andrzej Wajda, “Paesaggio dopo la battaglia” (1970), tratto dal racconto dello scrittore Tadeuscz Borowski “La battaglia di Grunwald” (tradotto in italiano “Il mondo di pietra”, Lindau, 2022), si vedono i prigionieri di un campo di concentramento in Germania occidentale, appena liberato dalle truppe americane, correre oltre le barriere di filo spinato e giocare in mezzo alla neve.

 

Ma, per decisione degli americani, il campo di concentramento è stato trasformato in un campo profughi, e ai prigionieri non è ancora permesso di uscirne... In quel caso, alla fine seppur non definitiva del dramma della Shoah (i sopravvissuti continuarono per diversi anni ancora a essere vittime di linciaggi e violenze, e in seguito, fino a oggi, di volgari negazionismi e attacchi antisemiti), quel rotolarsi nella neve era la manifestazione della gioia per la libertà, del ritorno alla vita. Se si naviga in rete ci si accorge subito che su Auschwitz circolano non soltanto cretine tesi negazioniste ma anche fantasiose ipotesi paranoiche come quella che scambia una lunga vasca d’acqua in funzione antincendio, tra la prima e la seconda barriera di filo spinato, per “una piscina dove i prigionieri d’estate facevano il bagno”. Le guide polacche che accompagnano i visitatori sono molto preparate e parlano bene le lingue. Hanno l’imput di non battere troppo sull’aspetto emotivo di ciò che mostrano, ma dare molte informazioni di carattere tecnico: misure degli edifici, capienza delle camere a gas, numero di treni giornalieri in arrivo, funzionamento delle varie strutture del campo... Come mi ha spiegato uno di loro: “Le emozioni passano, la comprensione resta”. Ma la cosa più difficile con i giovani visitatori è convincerli a non farsi ovunque i selfie.

 

Il diffuso senso di morte di quei luoghi, dove milioni di persone furono stritolate e cancellate, fa dimenticare che essi avevano una vita. Per le strade della vicina Cracovia, si possono cogliere ancora delle tracce della vita della comunità ebraica e immaginare cosa accadesse nella piazza della macelleria rituale, sotto gli alberi della Via Larga (Szeroka), nelle casette dietro la barocca Sinagoga Kupa, o i bei palazzi ottocenteschi che costeggiano la via del Ponte (Mostowa). Ma è piuttosto difficile perché il quartiere ebraico Kazimierz si è molto trasformato negli ultimi trent’anni: pieno di locali e ristoranti falsoebraici e negozietti per turisti. Il contrasto tra questa paccottiglia e il campo di sterminio è stridente. Si rischia di scambiare come vera soltanto la morte. Perché Auschwitz, che soltanto dagli anni Ottanta si è trasformata in sinonimo della Shoah, trasmette veramente, pur nella sua struttura museale (un discorso assai diverso è l’immenso e più autentico campo di Birkenau) il senso più profondo e definitivo della morte. Anche se, ad esempio, Wlodek Goldkorn, nel suo libro “Il bambino nella neve” (Feltrinelli, 2016), scrive che “Auschiwitz sembra una fantasmagorica costruzione posticcia (...), un luogo postmoderno, inventato per rappresentare gli orrori del Novecento e per esserne il simbolo”.

 

Per la prima volta andai ad Auschwitz nell’aprile del 1980, con uno scassato autobus dell’Università di Varsavia, assieme a un gruppo di studenti di varie nazioni. C’erano anche un paio di tedeschi occidentali e un gruppetto di quelli della Ddr. I primi si sentirono subito male appena varcato il cancello con la scritta “Arbeit Macht Frei”. Quelli della Germania comunista seguirono scrupolosamente tutto l’itinerario, impassibili. Come ci spiegarono nel viaggio di ritorno: “I nazisti erano quelli poi rimasti all’Ovest”. La guida che ci accompagnò era un ex deportato che ogni tanto veniva scosso dai tremiti e gli si bloccava la voce. Fu lui che mi disse una frase che ho poi ritrovato nel libro “Ebrei. Un popolo in disaccordo”, (Cafoscarina/Gariwo, 2023) dello studioso israeliano dell’Olocausto Yehuda Bauer: “La storia del popolo ebraico non è la storia dell’antisemitismo”. 

 

Auschwitz intrappola gli ebrei nella morte: li identifica con il loro sterminio. L’anestesia delle emozioni

 

Auschwitz non dovrebbe più essere soltanto un’icona del Male, ma un prisma attraverso il quale vedere l’Europa e la sua storia: uno strumento per prepararsi ad agire nel mondo di oggi e di quello a venire. E invece Auschwitz intrappola gli ebrei nella morte: li identifica con il loro sterminio. Per questo si corre il rischio che la Memoria si affievolisca e la celebrazione del 27 gennaio divenga un rituale stanco. Soprattutto ai giovani bisogna parlare della vita, di coloro che coraggiosamente, senza essere né eroi né santi, si sono spesi per salvarla, come i Giusti, ricordati nei vari giardini, come quello sul Monte Stella a Milano. Gli alberi piantati in loro onore sono il simbolo della vita, un insegnamento che guarda al futuro perché i genocidi non accadano più. 

 

Alcuni anni fa accadde un fatto che mi fece riflettere sulla necessità di cercare di non confondere, anche in un evento drammaticamente estremo come la Shoah, la morte con la vita. Crollò una delle librerie della mia stanza. Era il settore, accanto a quello dedicato alla Polonia, dove stanno i libri sulla storia e la cultura ebraica (le due scaffalature, per forza di cose, in più punti combaciano o si sovrappongono). Disponendo i libri in fila, di costa, sul pavimento del corridoio, per poterli collocare sui nuovi scaffali di metallo, notai che in quel settore, come negli altri della mia biblioteca, tutto stava assieme (letteratura, storia, geografia, filosofia, religione, arte, testimonianze, album fotografici). Ma sotto la categoria “ebraica” c’era una promiscuità particolarmente stridente. Per dirla senza troppo girarci attorno: nella mia libreria ci sono troppi libri sull’Olocausto e questi, mi pare, “soffocano” quelli di letteratura, poesia, arte, filosofia ebraica.

 

Non è tanto una questione di numero di volumi, ma di gravità e tragicità degli argomenti. È come se i massacri mettessero in sordina tutto il resto. Ho avuto la sensazione di una sorta di tragica beffa: lo sterminio continua a gettare un’ombra funesta su tutto il resto. È quasi come se i distruttori imponessero la loro opera, attraverso le testimonianze e le ricostruzioni storiche, le spiegazioni e le interpretazioni filosofiche (tutte però abbastanza insoddisfacenti). La cultura e la storia ebraica, la bellezza e la vita, sono schiacciate sotto il peso di quelle vicende di odio e morte. Con il senno del poi tutto il bello del “prima” viene offuscato dalla tragedia del “poi”.

 

Nell’interpretazione a posteriori si è arrivati persino a considerare i testi come “premonizioni”. È accaduto, ad esempio, a Franz Kafka e a Bruno Schulz le cui opere sono state lette, da alcuni, come “profezie” dell’Olocausto, schiacciando così i loro racconti sugli avvenimenti successivi. Mi sono quindi ostinato a cercare di separare i libri sulla vita e la bellezza da quelli sull’odio e la morte, anche se in molti casi è impossibile farlo, perché la luce e il buio stanno nello stesso volume (basti pensare ai romanzi dei due fratelli Singer). Questo capita soprattutto nelle autobiografie, dove il racconto dell’infanzia e la giovinezza è poi annichilito dalle storie dell’annientamento delle famiglie, degli amici, di interi quartieri e villaggi. Il ricordo del Male andrebbe, in qualche modo, separato dalle testimonianze del Bene e della Bellezza, del Pensiero, l’Ironia e l’Arte. 

 

Nei Giorni della Memoria si parla soprattutto di Ricordo. “Ricorda cosa ti ha fatto Amalek”, ammonisce la Bibbia  (Deut. 25:17-8), a proposito di coloro che attaccarono gli ebrei nel deserto. Il ricordo col tempo tende naturalmente ad affievolirsi, ma non si deve dimenticare: per rispetto delle vittime e anche di noi stessi, perché, come scrisse Primo Levi, esso ci serve a imparare a riconoscere nuovamente il Male, dai primi sintomi,  qualora si ripresentasse (anche se, purtroppo, ad esempio, nel caso della ex Jugoslavia, o nella recente invasione dell’Ucraina, iniziata di fatto già nel 2014, purtroppo, non ne siamo stati capaci). Se la memoria oggi si affievolisce è perché ci si è soffermati solo sulla morte, e si è dimenticata la vita di chi è stato sterminato.

 

La Memoria spesso necessita, per essere rafforzata, di un ostinato lavoro di ricerca e riappropriazione del poco che è rimasto. Come ha fatto Bianca Stigter nel recente film documentario “Tre minuti”, dove ha ricostruito il destino tragico della comunità ebraica di Nasielsk (uno schtetl a una cinquantina di chilometri da Varsavia) attraverso un breve filmato amatoriale in 16 mm, girato nel 1938 da un americano di origine polacca tornato nel paese dei suoi avi,  rinvenuto per caso in un armadio pochi anni fa e restaurato e conservato ora dalla “Survivors of the Shoah Visual History Foundation” (USC), istituita nel 1994 a Los Angeles da Steven Spielberg. Utilizzando i piccoli frammenti rimasti, un po’ come faceva Sherlock Holmes con gli indizi, ha tirato fuori i volti di centocinquanta persone, come in un’istallazione di Christian Boltanski, che ha ritrovato alcuni sopravvissuti o loro parenti. 

 

Il fotografo Horowitz dice all’amico regista Polanski di Cracovia e del suo quartiere ebraico: “Sembra Disneyland!”

 

Di Cracovia e del suo quartiere ebraico, dove tornano assieme dopo sessant’anni, il fotografo Ryszard Horowitz (1939) dice all’amico regista Roman Polanski (1933): “Sembra Disneyland!”. Il bellissimo film “Hometown. La strada dei ricordi”, dei registi polacchi Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer , fa rincontrare nella loro città natale questi due ebrei sopravvissuti. Entrambe le loro famiglie sono state testimoni della costruzione del ghetto e delle deportazioni nei campi di concentramento di Cracovia. A differenza dei suoi genitori (la madre è morta ad Auschwitz), Polanski è scampato all’esperienza della deportazione ed è stato nascosto e affidato a famiglie diverse. Coccolato dalla sua famiglia, Horowitz invece è stato deportato piccolissimo ad Auschwitz, venendone poi salvato (uno dei più giovani) dal giusto Oskar Schindler, motivo per cui lo si può intravedere in una rapidissima apparizione in “Schindler’s List” di Steven Spielberg.

 

A fine anni Cinquanta sia Polanski sia Horowitz hanno lasciato la Polonia, trovando affermazione professionale negli Stati Uniti. I due, passeggiando per le strade della loro città natale, raccontano e mostrano ciò che è di per sé indicibile e non rappresentabile: l’odio razziale, la progressiva segregazione, la persecuzione, la schedatura, la lacerazione degli affetti, la condanna a morte mascherata da opportunità di lavoro. Ma soprattutto ridono. Una malinconica felicità che inizialmente sconcerta: come quando Polanski racconta sghignazzando il funerale di suo padre, proprio davanti alla sua tomba e poi dice che sicuramente anche lui dal cielo ne sarebbe stato contento. Quel padre che, come Polanski ricorda nelle sue memorie (“Roman Polanski”, Bompiani 1984), quand’era piccolo gli diceva: “Aspetta e vedrai. Fra cinquant’anni tutto ciò sarò dimenticato. E ricomincerà da capo”. La lezione che ci viene da questo film è che ridere non è dimenticare: è la rivincita della vita sulla morte.

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