Il libro
“La parola ‘islamofobia' è un'arma per confondere e mettere a tacere”, scrive Rémi Brague
Ieri è uscito per Gallimard "Sur l’Islam", l'ultimo volume del filosofo e medievalista della Sorbona. Il dialogo impossibile con chi taccia ogni posizione critica sull'Islam "come una forma di squilibrio mentale"
Ha scelto di aprire il libro con un capitolo dedicato all’“islamofobia”. “L’uso ripetuto della parola ‘islamofobia’ ha davvero il dono di esasperarmi” scrive il filosofo e medievista della Sorbona, Rémi Brague, nel libro uscito ieri in Francia per Gallimard, “Sur l’Islam”. “La parola ‘islamofobia’ permette di confondere tutto, mentre ai filosofi piace distinguere: confondere la religione con chi la professa, confondere il sistema dogmatico e giuridico di questa religione con la civiltà che ha segnato, anzi dominato, mettendo nello stesso sacco (all’occorrenza della spazzatura) lo stupido razzismo (oso questo pleonasmo) nei confronti degli immigrati e lo studio storico-critico dei testi sacri su cui si basa la religione, ecc”. Non solo: “Proibisce ogni dialogo, poiché una ‘fobia’ è sempre una forma di squilibrio mentale e non si perde tempo a discutere con un pazzo”.
Brague scrive che l’espressione “islamofobia” segue una tattica già collaudata. “Durante il periodo dell’Unione Sovietica, avevamo il diritto di non essere comunisti, ma non avevamo il diritto di criticare l’Urss o i partiti comunisti occidentali. Chi vi si avventurava veniva subito accusato di ‘fare il gioco’ di tutta una serie di forze del male, ‘antidemocratiche’, ed etichettato come ‘anticomunista’, cosa che non era non un complimento”. Basta pensare che Italo Calvino dell’autore di “1984” scrisse che era portatore di “uno dei mali più tristi e triti della nostra epoca: l’anticomunismo”. Scrive Brague: “Jean-Paul Sartre, insieme a tanti altri, lo diceva nel 1961: ‘Un anticomunista è un cane’. Ed è un eufemismo dire che ha mantenuto la parola data. Questo mostro rabbioso, degradato dalla condizione umana a quella canina, doveva essere divorato da un odio implacabile. Mi permetto quindi di indicare a coloro che potrebbero essere tentati di chiamare me o altri, un ‘islamofobo’, per rimproverarmi di non amare l’Islam, un rimedio altrimenti efficace: dateci dei motivi per amarlo”.
A dimostrazione di quanto scrive Brague basta sfogliare l’elenco di coloro che sono stati chiamati “islamofobi” e a difendersi in tribunale. Da ultimo Michel Houellebecq e in precedenza Georges Bensoussan. Il caso di quest’ultimo è interessante. Da direttore editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi (i suoi libri sono pubblicati da Einaudi), una mattina Bensoussan è ospite di France 2. Si parla di banlieue, su cui Bensoussan ha curato il libro “Les Territoires perdus de la République”: “Non ci sarà alcuna integrazione fino a quando non ci saremo liberati di questo antisemitismo atavico”, dice Bensoussan. “Il sociologo algerino Smaïn Laacher, con grande coraggio, ha detto che nelle famiglie arabe in Francia è risaputo – ma nessuno vuole dirlo – che l’antisemitismo arriva con il latte materno”. Saranno anni di tormento e tre gradi di giudizio, da cui Bensoussan esce scagionato dall’accusa di “istigazione all’odio”. Bensoussan ripercorre la vicenda in un libro, “Un exil français. Un historien face à la justice”. Ma come racconta al mensile Causeur, il suo editore ha rifiutato di pubblicarlo: “Le edizioni Stock mi avevano chiesto un libro sulla mia vicenda, ma poi lo hanno rifiutato”. Così Bensoussan ha portato il libro da un editore di destra, L’Artilleur. E il boicottaggio è stato massiccio. “Senza la minima censura statale, un’altra, più insidiosa, mina il mondo culturale. Questi censori non vietano nulla. Uccidono in silenzio. Tutto quello che devono fare è rifiutarsi di vendere i libri dei malvagi. Il mio libro era disponibile in 96 librerie, un saggio di Piketty in 800 librerie. Nel mondo dei censori hai il diritto di parlare, ma non di essere ascoltato. E se vieni pubblicato nonostante tutto, sarai sepolto nel silenzio”. Come un cane, appunto.