Ritratto di Pierre-Auguste Renoir (Wikipedia)

"Il capolavoro sconosciuto"

Balzac aveva capito quant'è difficile dare forma e sostanza all'indicibile

Marco Archetti

Nel racconto ritradotto e ripubblicato da Elliot è centrale il rapporto tra realtà e rappresentazione, in una Parigi seicentesca dove si muovono un pittore e il suo maestro. "La bellezza è qualcosa di severo e difficile che non si lascia conquistare senza sforzi"

Inventarsi il lupo. Ecco cos’è la letteratura secondo Vladimir Nabokov, che nelle Lezioni ne faceva risalire la nascita non tanto al ragazzino neanderthaliano che, inseguito dal tremendo latrante, grida – appunto – “Al lupo! Al lupo!”, ma al medesimo ragazzino che, nonostante non ci siano né lupo né inseguimento, grida lo stesso (ère fortunate, oggi il medesimo genererebbe solo una rissa tra pedago-star in seconda serata). Certo, il fatto è inaggirabile: il rapporto tra realtà e rappresentazione – centrale ne Il capolavoro sconosciuto di Honoré de Balzac, ritradotto e ripubblicato in questi giorni dall’editore Elliot (100 pp., 10 euro) – è oggetto di studio e di elaborazioni filosofiche da quando esiste l’umanità: non si è dato lupo senza domandarsi da dove venisse e dove andasse; e se l’invenzione del lupo inventi davvero il lupo o no; se inventarsi lupi sia un atto di opposizione alla realtà o di mera frapposizione, o chissà cos’altro; e se aiuti a vedere meglio oppure, al contrario, sparga ulteriore fumo sull’arrosto.

 

Ma partiamo dall’arrosto di Balzac: sostanzioso al punto che, ispirandocisi liberamente e spostando in avanti di tre secoli la vicenda, Jacques Rivette nel 1991 girò “La bella scontrosa” – quattro ore tonde che incassarono il Premio Speciale della Giuria a Cannes. Due anni dopo, riduzione della metà (ottenuta tagliando le scene della mano del pittore Michel Piccoli che dipingeva, ritraendo la quasi sempre nuda e callipigia Emmanuelle Béart) e rititolazione: diventò “Divertimento” – ci basta la parola. Balzac, invece, non regalò ai lettori altro che un mazzetto di pagine, ma la portata non è striminzita, al contrario. In scena vediamo subito il pittore Nicolas Poussin, “povero principiante, imbrattatele d’istinto” – siamo a Parigi, dicembre 1612 –, che sta salendo le scale del palazzo in cui si trova lo studio del maestro Porbus, che il giovane sta andando a conoscere, pieno di timore e col cuore che sfarfalla. Comincia dunque così, col ballo cardiaco del debuttante e le ginocchia tremanti di un inesperto, questo racconto che parla di disillusione e di maturità, e offre ai nostri occhi, già nelle prime pagine, il maestro Porbus nell’atto (imprevedibile) di essere, semmai, uno scolaretto, mentre si fa fare la predica da un misterioso personaggio che il principiante ha incontrato sul pianerottolo. Esaminando un suo quadro, lo sta strigliando così: “Non sei un vile copista!” – e son tuoni che risuonano ancora oggi, èra accidiosa in cui non si inventano lupi, ma ai lupi si fa la morale – e poi conclude: “Noi dobbiamo cogliere lo spirito, l’anima, il pensiero che esprime una mano attaccata a un corpo! La bellezza è qualcosa di severo e difficile che non si lascia conquistare senza sforzi” – e pure questa andrebbe tatuata, dato che ormai ogni assessorino, inaugurando la sua sagretta, straparla di bellezza credendola salume da vassoio. “Voialtri vi accontentate tutti di come una cosa si mostra a prima vista”.

 

Ma chi è questo strigliatore che non risparmia nemmeno Rubens, “con le sue montagne di ciccia fiamminga”? È il Vero Maestro: Frenhofer. Uno che sa, uno che fa: ed ecco che prende colori e pennelli e corregge la tela di Porbus con rapidi tocchi – velature bluastre per “far circolare l’aria” tra i panneggi, morbidezza d’ocra per riscaldare un’ombra. Poi li invita entrambi a pranzo nella propria ricca casa a gozzovigliare e parlar d’arte. “Tutto in quel vecchio superava i limiti della natura umana”, pensa di lui Poussin. E in effetti, curriculum non indifferente: è stato l’unico allievo del grande Mabuse, unico depositario dei suoi segreti. Al momento Frenhofer è alle prese da dieci anni con un’opera non conclusa. La concluderà: dieci anni e tre mesi di follia, che lo spingeranno fino al limite delle cose. Ma quando la mostrerà a Poussin e Porbus, la loro reazione sarà inattesa. Il capolavoro sconosciuto è la storia di un’opera impossibile. Perché l’Opera non è la realtà – l’Opera esiste solo se non c’è il lupo.