L'incantatorio “Lost in translation” di Ottavio Fatica
Il corpo a corpo di un traduttore alla ricerca maniacale della parola giusta
Il traduttore è uno sherpa, che sonda il terreno, intercede, guida, fa da ponte fra un territorio, una vetta e chi ci si vuole inerpicare. E’ una creatura di frontiera “per indole e mestiere. Per destino”. E’ un interprete di segni che sono un po’ dei sogni anche. E’ un fachiro e un contorsionista. E’ uno che rianima cadaveri. E’ un musicista che traspone in tonalità differenti un brano per un diverso strumento. Il bravo traduttore è uno che da un testo originale crea un altro originale. E qui mi fermo.
Traggo le definizioni da un piccolo testo incantatorio, Lost in Translation, scritto da Ottavio Fatica per Adelphi sulla sua attività di traduttore, appunto. E forse l’immagine che più mi sorprende (e diverte) è proprio quella dello sherpa. Sarà che lo conosco da quarant’anni, Ottavio, e l’ho sempre visto in mezzo ai libri impegnato in sofisticati discorsi sulle parole, persino a tavola, davanti a spaghetti fumanti e abbondanti bicchieri di vino, che proprio non riesco a figurarmelo con uno zaino pesante sulle spalle mentre conduce fiduciosi turisti del linguaggio verso una cima impervia. Eppure ha ragione. Cos’è tradurre se non una dura scalata per compiere al meglio il rischioso miracolo di ricreare in un’altra lingua la magia di un pensiero, di una scena, di un’idea unica e irripetibile? Non si tratta solo di “sottotitoli”, di rendere comprensibile una trama. Ci vuol altro. Da Kipling a Conrad a Auden, passando per Il signore degli Anelli del mitico Tolkien, il corpo a corpo di un traduttore specializzato come Ottavio Fatica diventa la ricerca maniacale della parola giusta (o del giusto sogno, per mantenere la sua metafora) nella convinzione profonda che ogni testo è intraducibile, ma solo “ricreabile” in una lingua diversa con inevitabile approssimazione. Anche se a volte – non con questi grandi autori, è ovvio – può succedere che la traduzione affidata a un buon traduttore sia migliore dell’originale…
Naturalmente c’è anche chi, consapevole dell’impossibilità di non perdere nella traduzione la voce profonda di uno scrittore, sceglie il basso profilo di una semplice trasposizione di parole da una lingua all’altra per rendere chiaro il significato letterale di una narrazione. Sottotitoli, appunto. Ma non è il caso di Ottavio, che si danna e s’arrampica come uno sherpa verso picchi vertiginosi, alla ricerca di sfumature e precisioni che all’orecchio di lettori abituati alle traduzioni classiche (vedi proprio il Signore degli Anelli, che ha cultori rigidissimi, ma anche Moby Dick del quasi intoccabile Melville) non sopportano cambiamenti e non vorrebbero rinunciare nemmeno a vecchi errori. Vediamo cosa succederà con Céline, con cui Fatica è al lavoro adesso (sul romanzo inedito Guerra) e al quale ha dedicato l’ultimo capitolo del suo Lost in Translation. Con Céline, dice, “non resta che trarre un sospiro, socchiudere gli occhi e lasciarsi portare da quel parlottio sbracato, virulento, garrulo, sublime, grondante amaritudine, venato di lirismo, sotteso di pietà. […] Con Céline la notte va bevuta fino in fondo”. Che il traduttore sia pure un po’ medium?
Per non parlare della poesia, intraducibile per eccellenza. Qui non basta essere medium, fachiro e sherpa insieme. Tocca anche essere poeta (e lui grazie a Dio lo è, avendo pubblicato con Einaudi due raccolte, Le omissioni e Vicino alla dimora del serpente). Eppure, sostiene, la traduzione di una poesia “è sempre questione di resa” perché “la traduzione di una poesia è una poesia che ha in un’altra poesia la sua ragione d’essere”. Il traduttore diventa così “il poeta del poeta” o “poeta al quadrato”. Per cui togliamoci dalla testa di conoscere davvero i versi di un autore di cui ignoriamo la lingua. Possiamo solo illuderci, e solo se incappiamo in un buon traduttore ri-creativo. Il resto è perduto per sempre. Nella traduzione. Ma forse anche un po’ riconquistato? Io dico di sì. E non finirò mai di benedire l’esistenza dei traduttori.