l'epoca della cancel culture
La storia dell'arte non può essere riletta con i nostri criteri scandalizzati
Basta accettare tante opere di un artista maschio e bianco. La critica d'arte Smith accusa il Metropolitan sulla selezione di Philip Guston. I suoi dipinti, così come lui stesso, sono tanto scomodi da volere che vengano cancellati
Abbiamo celebrato il Giorno della memoria in un momento storico in cui la correttezza politica si è trasformata in Alzheimer culturale collettivo. La cancel culture è esattamente il contrario del Giorno della memoria. Se ricordiamo l’olocausto perché insistiamo nel cancellare altri orrori, forse non collettivi ma più intimi e privati ma non meno gravi e per questo bisognosi anche loro di essere ricordati? Penso a questo mentre leggo un articolo sul New York Times di Roberta Smith, critica d’arte storica del giornale, che stigmatizza il Metropolitan museum per aver accettato più di sessanta opere donate dalla fondazione del pittore Philip Guston. La Smith dice che un museo che sta facendo uno sforzo per riscrivere la storia della propria collezione attraverso sguardi non solo maschi e bianchi non avrebbe dovuto accettare tante opere di un artista maschio e bianco, appunto.
Guston è, o forse dovrei dire è stato, uno degli artisti più rilevanti della storia della pittura del dopoguerra. La stessa Smith, ne sono certo, qualche anno fa lo avrebbe lodato come un gigante dell’arte americana. Anche se, in èra pre Covid, una sua grande retrospettiva fu “posticipata” perché i suoi dipinti con figure incappucciate del Ku Klux Klan avrebbero potuto essere fraintese. Eravamo in mezzo allo tsunami del Black Lives Matter. L’anno prima, gli stessi dipinti sarebbero stati lodati senza fraintendimenti. Infatti, Guston nei suoi quadri poneva l’eterno drammatico dilemma che già appariva nelle foto di Hitler con in braccio i bambini o piccoli dolcissimi cuccioli di cane.
Dietro l’apparenza di un gesto o di un’immagine “buona” si possono nascondere gli orrori e la cattiveria più profonda. Him, l’Hitler inginocchiato di Maurizio Cattelan, parla della stessa cosa. Gli incappucciati di Guston erano rappresentati in attività innocue, alcuni addirittura dipingevano come lui. Diventa allora un problema anche la generosità di una fondazione nei confronti di un museo come il Met. La donazione implica automaticamente la celebrazione dell’uomo bianco, non dell’artista. Marco Ferreri nel 1974 realizzò un film che s’intitolava “Non toccare la donna bianca”, oggi non potrebbe più farlo, eppure parlava a modo suo di colonialismo e dei crimini contro i nativi americani. Non toccare l’uomo bianco poteva essere il titolo dell’articolo della Smith. Non toccarlo nel senso di starne alla larga.
Qualche anno fa Gary Garrels, il curatore capo del SFMoma, il museo di arte moderna di San Francisco, fu costretto a dare le dimissioni perché a una riunione durante la quale il museo aveva comprato opere di molti artisti di generi e nazioni diverse, grazie ai proventi ricavati dalla vendita di un Rothko promossa dallo stesso Garrels, gli uscì fuori dalla bocca la seguente frase: “Non preoccupatevi, ogni tanto continueremo ad acquistare opere di vecchi artisti bianchi”. Accusato di suprematismo razziale il poveretto, gay e sostenitore da sempre delle lotte per i diritti civili di tutti, ha dovuto buttare una carriera di trent’anni. Che ce ne facciamo allora di questo uomo bianco? Una domanda sempre più incalzante. Se l’era fatta anche Nelson Mandela quando iniziò a negoziare con de Klerk.
Sapeva però che provare a far dimenticare la tragedia dell’Apartheid cancellando l’uomo bianco, rappresentato da de Klerk, sarebbe stato un errore e un disastro. La storia, forse, più che riscritta va riletta. Dopo averla riletta, dovremmo essere capaci di raccontarla in modo diverso alle generazioni che vengono, spiegarla nei fatti e più che altro nei misfatti. Cancellare Auschwitz avrebbe significato far dimenticare Auschwitz. La storia dell’arte grazie al cielo ha un peso specifico minore dentro la memoria dell’umanità, ma cancellarla e non rileggerla porterebbe a piccoli disastri.
Se domani saltassero fuori lettere autografe di Vermeer che ci raccontano gli abusi sessuali che il “maestro” imponeva alla ragazza con l’orecchino, minorenne magari, che facciamo di quel quadro? Oppure, paradosso assoluto, se ci sbattessero sul muso un documento autografo di Leonardo in cui inconfutabilmente si dice che la Monna Lisa aveva quattordici anni e il “genio” la utilizzava sessualmente come una bambolina, e il suo famoso sorriso era invece una smorfia di disgusto, che succede? La teniamo sempre appesa sul muro del Louvre?