santa o dannata?
Ragioni del mito sempre attuale di Giovanna d'Arco, a partire dagli atti del processo
Andò in guerra per la Francia vestita da uomo e finì al rogo. Con la canonizzazione a inizio Novecento, le opere su Giovanna dilagano. Quella di Charles Péguy è intensa e perturbante. Poi Shaw e Chesterton. Icona femminista ma anche reazionaria, ispira Greta Thunberg e Marine Le Pen. E poi libri, film, canzoni
Nel ’400 l’Europa si torceva nelle doglie del parto, e il risultato di quei sussulti si sarebbe rivelato a sua volta tutt’altro che pacifico. Vecchi ordini millenari collassavano o subivano profonde trasformazioni, l’orizzonte geografico si espandeva – preludio al più vasto ribaltamento delle prospettive astronomiche nei secoli seguenti. Il progressivo condensarsi delle monarchie e identità nazionali da una parte, la crisi della Chiesa e del papato – chi ha faticato in anni recenti con un papa regnante e uno emerito avrebbe avuto ben altre gatte da pelare quando due o tre papi si scomunicavano a vicenda, come nel “Brancaleone” di Monicelli – le scoperte della nuova filologia umanistica per quanto riguarda la trasmissione dei testi sacri, tutto questo sarebbe poi confluito nella miscela esplosiva del ’500, con l’avvento della stampa, la lacerazione della Riforma luterana e dello scisma anglicano che a loro volta avrebbero poi portato allo choc della Guerra dei trent’anni di cui è occorso da poco il quarto centenario, nella quale cattolici e riformati si sarebbero ammazzati “in modi alquanto carogneschi” come disse Alberto Melloni, facendo più morti in proporzione delle due guerre mondiali. Di tutto questo il ’400 conosceva avvisaglie, prove generali, oscillazioni tra vecchi e nuovi assetti del mondo, da cui sarebbero nate tante delle strutture sociali e ideologiche della modernità, con conseguenze ancora oggi, quali appunto gli stati europei o il centralismo romano e gerarchico del papato.
Un elemento strano persino per quel tempo, il Quattrocento, che parrebbe come l’ultima eco di fenomeni passati quali la Crociata dei Bambini
E proprio in uno di questi conflitti tardo medievali o protomoderni, quello tra Francia e Inghilterra, ecco emergere un elemento strano persino per quel tempo, che parrebbe come l’ultima eco di fenomeni passati quali la Crociata dei Bambini, e invece incarna un potenziale e un’attrattiva che continuerà a riverberare ben oltre la conclusione di quel mondo, e tanti che seguiranno. Una ragazzina pressoché analfabeta dichiara di avere una missione da parte di Dio, dei suoi angeli, dei suoi santi, indossa una corazza maschile, regge uno stendardo e, senza mai versare sangue di persona, guida però gli eserciti francesi alla riscossa, comunica rivelazioni private al suo re, viene adorata dalle folle e poi imprigionata e arsa come strega. Quattrocento anni dopo verrà proclamata santa, e ancora oggi il suo nome viene invocato sia riferendosi alle battaglie di Marine Le Pen che di Greta Thunberg. Ben più di Lorenzo il Magnifico o Costantino Paleologo, il XXI secolo continua a tornare da Giovanna d’Arco.
Indossa una corazza, regge uno stendardo e, senza mai versare sangue di persona, guida gli eserciti francesi alla riscossa contro gli inglesi
Certamente, in “Homo Deus” Yuval Harari ripercorreva la storia dell’umanità anche alla luce di un contrasto sempre rinnovato tra religione e spiritualità, tra i linguaggi tradizionali e l’introduzione di un fattore nuovo, che magari poi si sclerotizza a sua volta in ulteriori formule mummificate e soffocanti. Il profetismo di Isaia attacca nauseato gli olocausti di re e sacerdoti, Gesù denuncia come una bufera le ipocrisie glaciali dei Farisei, Arjuna deve combattere Bhisma, la fede cieca nel sistema sociale e Drona, perfino il suo maestro spirituale, rappresentante della legge religiosa. Tutto questo si accentra ed esprime anche in vicende meno travolgenti per la portata del loro impatto culturale e sociale, eppure altrettanto decisive per i nostri nodi immaginativi. “Se siamo giunti a questo punto in cui le indovine che predicano falsamente nel nome di Dio, sono meglio accolte dalla leggerezza popolare di quanto non lo siano i pastori e dottori, significa, come dato di fatto, che la religione sta per morire, la fede crolla, la Chiesa è oppressa dalle fondamenta, l’iniquità di Satana dominerà il mondo!”. Sono le parole inviate dai vescovi al Papa in seguito al rogo proprio di Giovanna d’Arco, la cui vicenda resta comunque diversa da quella di grandi rifondatori come Lutero, ma anche di condottieri militari e persino visionari.
Una ragazza “di volta in volta insolente, caparbia, impaurita, minacciosa, orgogliosa, scettica, sprovveduta, abile, battagliera, eroica”
Da circa seicento anni – e a latitudini impensabili – la storia della Pulzella, dalla vocazione misteriosa per ordine di San Michele Arcangelo e Santa Caterina a vestirsi da uomo e guidare i Francesi alla vittoria fino al processo per stregoneria e al rogo, risulta così esemplare da perdurare e allargarsi come una continua riserva di senso, dagli scritti della sua contemporanea Christine de Pizan – così amata dalle femministe anni 70 – che la definì “l’orgoglio del nostro sesso”, alle teorie e prassi gender-queer che tanto spazio occupano nel dibattito di questi anni. “Destino paradossale d’una ragazza giustiziata perché aveva osato andar fino in fondo contro il suo tempo”, scrisse Franco Cardini: “lei, donna, aveva voluto combattere come un uomo; lei, cristiana, non s’era piegata dinanzi a un tribunale della Chiesa – e poi troppo spesso denigrata come simbolo di devozione convenzionale e di retorica da sacrestia”.
C’è chi crede alle fate e alle sorgenti miracolose, la chiamata di Giovanna è diversa, lei guarda con palese disprezzo ad altre sedicenti profetesse
Eppure è così. A tanti secoli distanza si resta ancora sconvolti, affascinati, presi a rileggere gli Atti del Processo di Condanna (ripubblicati recentemente da Marsilio con la curatela di Teresa Cremisi). Nelle parole della studiosa, il ritratto complessivo che si configura tessera dopo tessera, è il mosaico paradossale di una “ragazza di volta in volta insolente, caparbia, impaurita, minacciosa, orgogliosa, scettica, sprovveduta, abile, battagliera, eroica”. Come è possibile che questa analfabeta “vissuta nel XV secolo, vestita di ferro e morta sul rogo per un decreto inquisitoriale, quindi riabilitata con una successiva sentenza, poi santificata (sì, ma quasi mezzo millennio dopo la sua tragica fine)” sia “diventata emblema ora di cattolici tradizionalisti ora di populisti anticlericali, ora della destra ora della sinistra, ora di meeting patriottici ora di movimenti femministi?”. A rileggere quei documenti d’archivio, redatti quando la preoccupazione dei tribunali ecclesiastici era compiacere la corona inglese prima e invece poi suffragare le tesi di quella francese, si incontra il cosmo di una ragazza al tempo stesso totalmente inserita nel suo cosmo eppure stranamente “altra” nell’assorbirlo. Devozione, partigianeria politica, superstizioni popolari. “Talvolta” racconta Cardini “specie durante le feste e in primavera, si univa alle compagne e alle coetanee ai piedi d’un grande albero, forse un faggio, che la tradizione folklorica collegava alle fate e attorno al quale si danzava e si cantava; il primo giorno di maggio – il mese dell’inizio del tens clar e dell’amore; il mese caro alle cavalcate cavalleresche e alla poesia cortese, ma sacro anche alla Vergine Maria – si appendevano ghirlande di fiori ai suoi rami”. Era credenza comune quella in donne misteriose e luminose come alieni, bonae foeminae, bonae res, che potevano visitare con doni eccezionali o – meno bonae, forse – persino rapire i bambini. E’ da quel sostrato che emergono le “donne coronate” cui anche Giovanna attribuisce la sua missione. Il suo stesso rigore al riguardo è assoluto eppure elusivo. C’è chi crede alle fate e alle sorgenti miracolose, la chiamata di Giovanna è diversa, quella semplicemente pratica e senza fronzoli di una buona “figlia di Dio”, che rifiuta di incantare la propria spada o altrui e guarda con palese disprezzo ad altre sedicenti profetesse. “Lei voleva andare dal duca di Borgogna per chiedergli di fare la pace; io le dissi che secondo me non avremmo trovato la pace se non sulla punta delle nostre spade.” Pare una parafrasi del celebre hadith di Maometto.
Segni inquietanti ce n’erano stati. Il padre aveva avuto l’incubo ricorrente della figlia che se ne scappava vergognosamente con i soldati – un destino temuto e vagheggiato che arriverà fino a “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen – per poi ammettere candidamente di volerla affogare nel lago con l’aiuto dei fratelli, pur di impedirlo. Invece il sogno ignominioso diventa una missione per cui lo stesso padre e fratelli otterranno onori e titoli, mentre la ragazza in armatura maschile viene ricevuta da re e nobildonne, interrogata da teologi, benedetta dalle folle in festa. Totalmente inserita nella gran scala feudale dell’autunno del medioevo, dove c’è posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto, eppure ancora una volta “altra”, capace di trapassare strutture e gerarchie familiari, politiche e perfino spirituali. Fino al tribunale dell’Inquisizione ecclesiale. “La Voce è buona, è santa… Ma io non sono tenuta a rispondervi”. Le sue repliche alle domande dei teologi, tesi come illuministi ante litteram a scovare la minima traccia di superstizione pagana o magari di sensualità diabolica, trascorrono dalla profondità disarmante – “Giovanna, sei sicura di essere in stato di grazia?”, “Se non lo sono, che Dio mi ci metta; se lo sono che Dio mi ci mantenga!” – alla sagacia civettuola della bambina di campagna: “Che aspetto aveva san Michele quando ti è apparso?”, “Non gli vidi in capo alcuna corona. Dei vestiti non so nulla”, “Era nudo?”, “Credete che Nostro Signore non abbia di che vestirlo?”, “Aveva capelli?”, “E per quale ragione avrebbero dovuto tagliarglieli? Non ho visto san Michele da quando ho lasciato il castello di Crotoy; non lo vedo spesso. No, non so se ha capelli”. Quel non so. E’ al tempo stesso il refrain continuo del suo sentirsi solamente una messaggera, un soldato che esegue gli ordini che Voce e Luce le hanno intimato, ma anche la sorgente della sua ultima incrollabile certezza contro qualsiasi obiezione. “Non pensi di dovere ubbidienza alla Chiesa terrena e cioè al Nostro Santo Padre il Papa, ai cardinali, agli arcivescovi, ai vescovi e agli altri prelati della Chiesa?”, “Sì… ma prima devo ubbidienza a Dio”.
Come un fiume carsico parallelo, scorre quello di Gilles de Rais: aveva lottato al fianco di Giovanna per poi seviziare bambini ed evocare il diavolo
Tuttavia i giochi sono fatti, la macchina di stritolamento segue il suo corso. “Ormai è maledetta” scriverà Bernanos. “I soldati che un tempo le domandavano gli incantesimi o volevano raccontarle i loro sogni, gli alti dignitari della Chiesa di cui lei osava appena sostenere lo sguardo troppo penetrante, i monaci fanatici e crudeli, le belle signore preziose, con breve movimento del mento che il potere di sconcertare chiunque e il bagliore dei loro occhi blu, tutto questo mondo incantato, dove essa stessa non era che un sogno, si allontana per sempre da lei, si ritira inesorabilmente”. Ed è proprio in questo abbandono che ancora una volta, attingendo a una risorsa oscura, la messaggera, come Ezechiele o Malcolm X, dà voce alle parole dell’eterno ammonimento che il sacro rivolge a ogni potere: “Badate, voi che dite di essere il mio giudice! Badate a quello che fate! Perché la mia missione viene da Dio e voi state correndo un grave pericolo!”. Dalle ceneri del suo rogo si alza un vento che soffia anche oggi e si tradurrà persino in parodie, diffidenze, ribaltamenti prospettici, ma sempre sotto la pressione di un’attrazione irresistibile. Come un fiume carsico parallelo, scorre anche quello più oscuro – e che attrarrà Bataille, Huysmans e Pasolini – di Gilles de Rais, il grande aristocratico che aveva creduto in lei, lottato al suo fianco per poi rinchiudersi nei suoi castelli della Lorena per seviziare bambini ed evocare il Demonio. La luminosa fanciulla di campagna e il fosco signore che cavalcano fianco a fianco, come nelle profezie di Isaia su agnello e lupo che pascoleranno assieme. La leggenda si diffonde subito, e assume tutte le forme possibili. Dalla “buona Lorenese bruciata dagli inglesi” delle ballate di Villon a Shakespeare, che, fedele alle pretese della corona inglese dall’altra parte della Manica, la dipinge come una strega che “supera in tutto il suo sesso”, sconfigge i carnali cavalieri di Francia, ha intrallazzi amorosi coi re ed evoca i demoni per poi autodenunciarsi, nuda e desolata come la Grande Prostituta della Bibbia o la perfida Duessa cattolica di Spenser. Voltaire, tradotto da Vincenzo Monti, ne fa l’epitome di tutte le superstizioni medievali, e pochi anni dopo, nel cuore stesso della Francia, la Pulzella viene al tempo stesso brandita dai contadini tradizionalisti della Vandea e senza soluzione di continuità dal Napoleone imperialista in guerra con le altre potenze europee.
“Ciò che c’è di coraggioso e di patetico in Nietzsche, Giovanna lo aveva, con una differenza: lei non esaltava il combattimento, ma combatté”
Per l’umanità post-freudiana la tragedia perfetta resta quella di Edipo cieco e incestuoso, mentre per tutto l’800, sulla scia di Hegel e Kierkegaard, il vertice del dramma umano era rappresentato dalla purezza di Antigone e delle sue “leggi non scritte” in lotta col potere statale di Creonte. A ispirare i poeti sono figure luminose di “sorelle” in cause ispirate. E’ nel medesimo cono di luce che si inserisce l’opera di Schiller su Giovanna, musicata poi da Verdi. Ma è all’inizio del XX secolo, nella Francia ancora una volta divisa tra socialisti e nazionalisti dell’Affaire Dreyfuss e – significativamente – negli anni della sua definitiva canonizzazione, che le opere e la riflessione su Giovanna dilagano. Mark Twain le dedica una estesa biografia, per l’apologeta Chesterton la sua figura costituisce l’ennesima riprova paradossale della capacità cristiana di abbracciare tensioni opposte come pace e guerra: “Racchiudeva in sé tutto quello che era vero in Tolstoj o Nietzsche, tutto quello che era persino tollerabile in entrambi. Pensai a ciò che c’è di nobile in Tolstoj: il piacere nelle cose semplici, specialmente la semplice pietà, le reali condizioni della terra, il rispetto per i poveri, la dignità delle schiene piegate. Giovanna D’Arco aveva tutto questo e una cosa ancora più grande: lei sopportava la povertà e al tempo stesso la ammirava, laddove Tolstoj è solo un tipico aristocratico che cerca di scoprirne il segreto. E poi pensai a tutto quello che c’è di coraggioso, di orgoglioso e di patetico in Nietzsche, e al suo ammutinamento contro il vuoto e la pusillanimità della nostra epoca. Pensai alla sua invocazione dell’estatico equilibrio del pericolo, al suo desiderio sfrenato di cavalcare cavalli possenti, al suo appello alle armi. Be’, Giovanna d’Arco aveva tutto questo, e di nuovo con una differenza, che lei non esaltava il combattimento, ma combatté”.
L’opera forse più intensa e perturbante resta però quella di Charles Péguy, il poeta e polemista francese che a Giovanna continua a tornare, ancora e ancora per tutta la vita, dalle prime battaglie laiche per la giustizia sociale alla dolorosa conversione. “A tutte quelle e a tutti quelli che avranno vissuto, a tutte quelle e a tutti quelli che saranno morti per cercare di rimediare al male universale”, è la dedica della sua prima Giovanna giovanile. Seguiranno i “Misteri”, grandiosa ricapitolazione della storia umana e della fede che parte dalla vicenda della Pulzella e fa avanti e indietro nel tempo. “Non si è mai parlato così cristiano” commenterà ammirato Von Balthasar e in tutt’altra prospettiva, a sua volta con un “mai”, pare fargli eco André Gide: “Mai la lingua francese è stata più libera e più sottomessa allo stesso tempo, rispondendo improvvisa al minimo soffio dello spirito”. Le traduzioni anche in italiano sono belle ed efficaci, ma forse il modo migliore per esporsi davvero a quelle ripetizioni e varianti continue – anche solo per vedere lo sconcerto di tanti devoti chiesastici che si tengono ancora stretti Péguy come “cosa loro” – sarebbe musicarle in rap, trap o spoken words: “Padre nostro che sei nei cieli; venga il tuo regno. O mio Dio se solo si vedesse l’inizio del tuo regno. Se solo si vedesse sorgere il sole del tuo regno. Ma nulla, mai nulla. Ci hai mandato tuo figlio, che amavi tanto, è venuto tuo figlio, che ha tanto sofferto, ed è morto, e nulla, mai nulla”. Così prega Giovanna, prima che la vocazione la ghermisca, o forse proprio perché la Voce l’ha già presa e opera come una trichina nell’organismo. E la sua interlocutrice, che già scorge i segni terribili dell’elezione in quella ragazzina, la avverte con parole che ancora una volta sintetizzano tutto il rovello e la solitudine che una chiamata – qualsiasi chiamata, qualunque sia la prospettiva in cui leggerla o qualunque significato si attribuisca alla parola Dio – opera: “Felice, infelice colui che sta sotto la mano di Dio. Felicità e disgrazia a colui in cui lavora lo spirito di Dio. Se Dio ti chiama, bambina mia, se Dio ha dei progetti su di te, le vie di Dio sono insondabili, e le intenzioni di Dio sono segrete; i progetti di Dio sono eterni, i progetti di Dio sono infiniti, i progetti di Dio sono straordinari; se Dio ti chiama, se Dio ha delle intenzioni su di te, mai tu troverai, mai tu ritroverai riposo, il pane quotidiano del riposo, il riposo come gli altri, il riposo degli altri, il riposo di tutti, il riposo su questa terra.” Péguy – che per tutta la vita vivrà agli occhi dei benpensanti in more uxorio, lontano dai sacramenti – morirà combattendo alla Marna, e ancora oggi i giovani cattolici “in jeans e polo” si recano in pellegrinaggio a Chartres e altrove a leggere i suoi versi. E’ proprio questa la scena che Houellebecq ritrarrà in “Sottomissione” per raccontare la nostalgia e irreparabile distanza che il protagonista del romanzo osserva clinicamente in se stesso: “E io mi chiedevo cosa potessero capire di Péguy, della sua anima patriottica e violenta, quei giovani cattolici umanitari… quei giovani cattolici, amavano la loro terra? Erano pronti a perdersi per lei? Mi sentivo io stesso pronto a perdermi, non per la mia terra in particolare, mi sentivo pronto a perdermi in generale”.
“Una cattolica che sposa un’eresia esclusivamente protestante”, quella del primato assoluto della coscienza e persino dei processi mentali
Un decennio dopo la morte di Péguy, l’ateo Bernard Shaw tornerà a Giovanna con un dramma incentrato sulla tesi che ella “aveva commesso un solo peccato imperdonabile e impronunciabile su tutti gli altri. Una cattolica praticante che sposa un’eresia esclusivamente protestante”, quella del primato assoluto della coscienza e persino dei processi mentali. Al Robert che le obbietta che le ingiunzioni divine “vengono dalla tua immaginazione” la ragazza ribatte serenamente “ma certo. E’ così che i messaggi di Dio ci raggiungono”. Seguiranno i testi di Anohuil e Brecht, che tra le sue poesie ha tanti versi che parrebbero comunque scritti per lei: “La parola mi tradiva al carnefice. / Poco era in mio potere. Ma i potenti / posavano più sicuri senza di me; o lo speravo”. Eppoi soprattutto il cinema. Bresson, Rossellini, Besson, con Ingrid Bergman o Milla Jovovich a indossare la corazza. E soprattutto Dreyer col suo capolavoro muto del 1928 che costò pure la salute mentale a Renée Falconetti. Ambizione del regista era che “il passato inghiottisse lo spettatore” fissando quasi ininterrottamente un viso allucinato e incerto nel quale si concentrassero tutta “la sofferenza e l’onestà, il rifiuto di tradire la propria missione, qualunque sia il prezzo da pagare”. Come commentò Neergaard: “Da un parte una contadinella assolutamente umana, semplice e in fiore; dall’altra il meglio dei lumi del secolo, i grandi dottori, i frutti migliori dell’università”. Molto prima delle ruote dentate o del rogo “il dispositivo degli sguardi in ‘Giovanna’ è un supplizio, una macchina di tortura” che fruga e tasta e punzecchia un abbandono in Dio fondato sulla “negazione della negazione”, un’alterità totale, dimessa e imperiosa, come nella teologia del coevo Karl Barth. Antonin Artaud, che compariva tra gli attori, lo definì un’accusa contro “la deformazione del principio divino passato attraverso i cervelli degli uomini, si chiamino essi Governo, Chiesa o con qualsiasi altro nome”. Spesso il film avrebbe poi ispirato colonne sonore eseguite dal vivo, ma come per i versi di Péguy, forse la scelta migliore è ancora una volta fonderlo con un linguaggio spiazzante, e affiancare ai primi piani di Giovanna, a quegli occhi gonfi di lacrime, a quei sorrisi incerti e radiosi, il martellio e le urla hardcore dei Counterparts.
Nel frattempo la cavalcata della Pulzella è proseguita molto lontano, persino in Giappone. In “Confessioni di una maschera” Yukio Mishima le attribuisce una delle sue prime cotte infantili, ingannato da quel caschetto biondo e il viso affilato che gliela avevano fatta prendere per un giovinetto. Yoshikazu Yasuhiko le dedica un manga e numerosi sono anche i riferimenti nel celebre “Berserk” di Kentaro Miura. Giovanna è – se si vuole – l’immagine rovesciata di Lady Oscar (a sua volta iconograficamente tratta dal Tadzio-Andrésen di Visconti): una paladina a servizio non della monarchia francese al tramonto, ma all’albore della modernità. Non una fanciulla cresciuta come un maschio per volontà altrui, ma una ragazza che impone ostinatamente a famiglia, poteri, sacerdoti un abito e una postura inconcepibili. La storica cattolica Régine Pernoud, che ripercorse eventi e testimonianze sulla ragazza del ’400 nel tentativo di cavarne una spiritualità sui generis, citava in un conclusione di un suo volume la risposta fornita dal regista Bresson su quale fosse il segreto attrattivo di Giovanna d’Arco: “Non si spiega la grandezza, si cerca solo di accordarsi ad essa”. Quale grandezza? La risposta ultima pare sfuggire, eludere e comprendere tutti i tentativi che la precedono. E a proposito di “accordarsi” sono altrettanti – se non più – i musicisti e cantanti che, sull’onda lunga di Verdi e Ciaikovskij, hanno provato a rendere la nota che si leva da quella figura remota ed elusiva. Elton John, Kate Bush, Leonard Cohen, Madonna, Caparezza: “Vinco una guerra contro l’Inghilterra non è che ando cohio, cohio! / Perché sento le voci che non sono voci di corridoio, ohio!”.
“Il secolo di Eva Perón, Simone Weil, Marilyn Monroe, Lady Diana e Teresa di Calcutta non ha potuto non interrogarsi sul conto della Pulzella”
Si continua ad attingere a quella fonte immaginativa ed emotiva. Il processo sulla natura delle Voci continua. Come quando ella marciava trionfante, tutti vogliono arrogarsi la giovane Lorenese per sé, dai rigurgiti di fanatismo conservatore e nazionalista in nome di Dio Patria e Famiglia a chi invece combatte in nome del femminismo, della contestazione dei ruoli di potere tradizionali, della fluidità dei linguaggi di genere e dell’identità sessuale: “Forse questa la ragione per la quale il secolo di Eva Perón, Simone Weil, Marguerite Yourcenar, Marilyn Monroe, Grace Kelly, lady Diana e Teresa di Calcutta non ha potuto esimersi dall’interrogarsi sul conto della Pulzella d’Orléans” chiosava Cardini. Nella sintesi di Elton John, “She was cool before they knew what cool became”. Si ritorna ancora e ancora all’albero delle visioni, all’assedio di Orléans, alle torture, incertezze e profezie esaltate del processo di Rouen. Tutti e ciascuno vi cercano e trovano qualcosa “Joanni, Joanni, Joanni, Joanni blows a kiss to God / And she just looks beautiful in her armour / Beautiful in her armour”, cantava Kate Bush. Il nuovo millennio non si è aperto con una rivoluzione scientifica o sociale, ma anzitutto antropologica, e, di conseguenza, teologica. Il pendolo oscilla tra il ricorso a vecchi schemi confortanti, e violenti, e il tentativo iconoclasta di abolire ogni stereotipo previo, operando uno sfondamento continuo che tuttavia non è esente dai rischi della società consumistica e dei suoi riti di autorappresentazione. In tutto questo Giovanna continua a sfidare autorità vecchie e nuove e ricordare che forse non saremo tutto ciò che vogliamo e neppure ciò che le tradizioni che ci forgiano e indirizzano hanno detto e dicono di noi. “I’m not Joan of Arc, not yet / But I’m in the dark, oh yeah” (Madonna). Eppure, ad ascoltare bene, qualunque sia la fonte di tale ispirazione, siamo sicuramente più di quanto già sappiamo o crediamo di sapere. “C’è nel mio cuore come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzo di contenerlo, ma non posso”, cantava e lamentava già Geremia. E scoprirlo e difenderlo è terribile.