le derive della cultura woke
Con la riscrittura di Roald Dahl si mette in discussione l'idea di autore
Non solo razza e gender: le nuove regole del politicamente corretto impongono di mettere via “grasso” dalla “Fabbrica di cioccolato”. Ma così si va contro il principio stesso di letteratura
"Prima di tutto vennero a cancellare la parola ‘negro’, e fui contento, perché non l’avevo scritta io. Poi vennero a cancellare i pronomi, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a cancellare la parola ‘grasso’, e fui sollevato, perché mi ero messo a dieta. Un giorno vennero a cancellare me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”. Possiamo parafrasare le parole del pastore antinazista Martin Niemöller – erroneamente attribuite a Brecht – e applicarle a questa ondata revisionista della letteratura che ogni giorno ci regala nuovi motivi per indignarci. Dopo Mark Twain, dopo Agatha Christie, dopo Pippi Calzelunghe, dopo Zio Paperone, anche Roald Dahl si può aggiungere a questo falò editante del politicamente corretto.
Povero Roald Dahl, non bastava esser portato sullo schermo da Tim Burton. Ora le nuove edizioni anglosassoni dei suoi bestseller per bambini, dal GGG a Matilda, da James e la pesca gigante a Le Streghe, vedono alterati alcuni aggettivi, visti come potenzialmente insultanti nel clima culturale contemporaneo. Parliamo di razza e gender, ovviamente, ma anche di salute mentale e di peso. Il personaggio di Augustus Gloop ad esempio, il primo bambino a esser eliminato nella competizione di Charlie e la fabbrica di cioccolato, non è più “enormously fat”, ma solo “enorme”, sparisce il grasso. Le temibili ruspe di Fantastic Mr Fox, che distruggono l’habitat naturale, non sono più descritte come “nere”, per non associare la razza all’aggressività. I personaggi femminili de Le Streghe non fanno più lavori come la cassiera o la segretaria, ma le “grandi scienziate” o le imprenditrici. Sparisce anche la parola “brutto”, che potrebbe offendere chi non conosce il proverbio: “Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace”. L’editore, per modificare il testo, ha chiesto la consulenza di Inclusive Minds, un collettivo che ha l’obiettivo di far sì “che ogni bambino si senta rappresentato dalla letteratura d’infanzia mainstream”.
Brian Cox, l’attore di Succession e interprete shakespeariano, ha parlato di maccartismo. Salman Rushdie, che si è appena ripreso dalle coltellate ricevute per la sua battaglia per la libertà di espressione, ha detto che è una “censura assurda”, e che l’editore, Puffin books, dovrebbe vergognarsi. Philip Pullman, autore bestsellerista de La bussola d’oro, ha detto di smetterla di pubblicarli, che tanto ci sono migliaia di vecchie copie nelle case della gente: “Cosa faranno? Una retata per raccogliere tutti i libri esistenti e cancellare le frasi con una grossa penna nera?”. Un altro punto a favore dei libri di carta rispetto agli e-books, l’impermeabilità ai nuovi censori.
Possiamo ormai dare per scontate due cose. La prima: il desiderio, guidato dal mercato e dallo Zeitgeist, di evitare preventivamente di poter offendere un lettore va contro l’idea stessa di letteratura. Non solo, va anche contro il concetto di autorialità (è ancora Roald Dahl se le parole nel libro non sono più di Roald Dahl?). Secondo: le modifiche delle opere causate dalle bandiere di inclusione e diversità non hanno potenzialmente limiti. Domani parole che ieri non erano offensive potrebbero diventarle, richiedendo altre cancellazioni. Questo fa nascere nell’editoria una nuova posizione, quella del censore woke, sempre attentissimo, sempre sul pezzo. In questo modo i libri diventano qualcosa di fluido, di liquido, qualcosa di perennemente modificabile, per adattarsi allo spirito del tempo. Ogni anno una nuova edizione del Grande Gatsby in base alle nuove direttive sulla sensibilità. I libri stanno diventando un nuovo tipo di medium che distrugge il detto “verba volant, scripta manent”.