facce dispari
Pasquale Scialò, le sette vite della musica napoletana
Musicologo che si muove tra rap e melodia, tra elettronica e world music. "Secondigliano è stata la mia scuola di vita, di cui ho palpato le contraddizioni". Intervista
L’ultimo successo è la sigla della serie tv Mare fuori, ambientazione in un carcere minorile, sound diverso ma tematica affine al Canto del Filangieri su cui giocò nove anni fa Roberto De Simone mixandolo con Je so’ pazzo di Pino Daniele. Tra rap e melodia, fra i classici di un trascorso mai passato, fra elettronica e world music cavalcando quel brutto e necessario vocabolo, “contaminazione”, la musica napoletana dimostra sette vite come la Gatta Cenerentola del cavalier Basile, non di Perrault (dove non è più gatta ma pudibonda Cendrillon). Studioso e compositore, teorico e pratico delle trasformazioni è Pasquale Scialò, professore di Musicologia all’università Suor Orsola Benincasa, già autore delle musiche di scena per Scaparro, Gregoretti e Moscato (con il quale ha percorso un lungo sodalizio artistico), premio Ennio Morricone 2021 per le note del film Ariaferma di Leonardo Di Costanzo. Scialò comincia a interessarsi di canzone napoletana da ragazzo che ascoltava, Morandi docet, i Beatles e i Rolling Stones, però afflitto da un vicino di casa disoccupato oltre la sottile parete di un appartamento di Secondigliano, che non riusciva a ovattare il repertorio sparato a palla delle musicassette di Mario Merola. “Finii per conoscere, mio malgrado, tutti i suoi brani, e il giorno che lo incontrai si sorprese perché ne ricordavo persino la cronologia di uscita”.
Merito o colpa del suo vicino.
Ho vissuto l’adolescenza a Secondigliano, vedendo nascere il rione “167”: una scuola di vita di cui ho palpato le contraddizioni ma da cui ho acquisito un contatto diretto con la cultura popolare urbana di quegli anni.
Che trova sempre espressione, o una prima espressione, nella musica.
Si rivela pure nell’architettura: nel centro storico convivono palazzi nobiliari e alluminio anodizzato, però la musica ha più immediatezza sensoriale di altre forme artistiche.
Leggendo i testi di Liberato si ritrovano gli archetipi, o gli stereotipi, dei parolieri ottocenteschi. Cita persino la Sirena. Qual è il legame col passato?
Le radici mitiche, che poi si fanno storia e cultura quotidiana, sono incancellabili malgrado il rischio oleografico cui Napoli è sempre esposta. Più delle altre, l’ultima generazione con questo rischio ci gioca, rielaborando e destrutturando elementi iconici che tornano come frammenti alluvionali del passato, ma calati nel contemporaneo creano una continuità discontinua, l’interessante ciclicità della cultura napoletana. L’importante è ascoltare le novità con orecchio privo di pregiudizi e al netto dei gusti personali per cui una cosa può piacerci o no.
Qual è il segreto di questa vitalità?
Quello di ogni tradizione che perdura: per farlo deve essere dinamica e inclusiva, aperta agli stimoli esterni. Se rimane statica muore. Napoli ha da sempre la capacità, come si dice oggi, di essere ‘glocal’. ’O sole mio è a tempo di tango habanera. E Mario Costa, che scrisse le note di Era de maggio, si rivela permeato anche dalla liederistica di Schubert. Lo stesso vale per compositori come De Leva, Tosti e più indietro Florimo. Avevano l’orecchio teso all’ascolto esterno, al di là dei generi.
Un fil rouge di improbabile apparenza unisce Costa e Liberato?
Si tratta di impronte neuromusicali, di marcatori identitari sonori che si realizzano in tempi, forme e nei diversi generi in cui vengono codificati. Ma all’origine c’è una matrice aperta alla interculturalità.
Lei è autore di una Storia della canzone napoletana pubblicata per Neri Pozza tra il 2017 e il 2021. Quali pezzi mancano alla nostra conoscenza?
Ascoltiamo quasi sempre le più rinomate 150 canzoni, mentre il patrimonio rimasto inerte sulla carta dei vecchi spartiti ne conta molte migliaia da ripescare, non alla rinfusa ma con criteri sistematici. Non solo per valore artistico o comunicativo, ma perché raccontano la storia di una città secondo aspetti più sottili. Un esempio: le canzoni futuriste.
Nell’epoca d’oro i parolieri erano spesso giornalisti e scrittori e i quotidiani ospitavano sulle proprie colonne poesie e canzoni. Cosa si ruppe poi per cui ciascuno ha praticato solo il suo mestiere?
Accadde quando la canzone diventò un’industria e si professionalizzò per esigenze di mercato. Oggi è arduo immaginare la poliedricità di un Salvatore Di Giacomo: cronista, poeta, scrittore, bibliotecario, storico. Una commistione che sviluppò anche aspetti negativi, come l’invadenza e i conflitti d’interessi nelle giurie dei festival. Eppure, quando musicai la poesia Guaglione di Raffaele Viviani, non scelsi la versione definitiva ma la più bella e la trovai pubblicata sul Corriere di Napoli.
Quali sviluppi immagina per la musica napoletana?
La sua vitalità carsica ferve in nuove trasformazioni, che bisognerà cogliere se meritevoli. È un processo molto fluido: i neomelodici si sono ampiamente riversati nel rap; il filone folk si è disseminato nel pop nazionale; la musica liturgica con le voci del miserere ha infiltrato la world music; le tammurriate sono diventate etnopop. La tradizione non è un fermo immagine sul’arcaico, perché quando l’arcaico è autentico vuol dire che intanto si è mosso nel tempo.
Avrà qualche canzone che le piace riascoltare più spesso.
Napulitanata di Di Giacomo-Costa, l’antichissima Fenesta vascia e poi Pino Daniele, che fece una rivoluzione senza spargimento di sangue: rinnovando per tornare. Non sui suoi passi, ma alla matrice.