La recensione
L'infra-ordinario di Perec
Il banale, quello che accade ogni giorno, è per lo scrittore francese la tessera di un puzzle di circostanze ideali. Torna in libreria l'opera di questo eccezionale "testimone"
Vladimir Nabokov dichiarò che la realtà doveva ritenersi una questione essenzialmente soggettiva: «possiamo avvicinarci sempre più alla realtà; ma mai a sufficienza, perché la realtà è una successione infinita di passi, di gradi di percezione, di doppi fondi». Per l’autore di “Lolita”, l’unico realismo al quale ci si sarebbe potuti affidare sarebbe stato quello che, attraverso un’eccellente capacità sinestetica e un fine senso visivo, si fosse soffermato su un dettaglio e l’avesse cristallizzato in una purissima struttura mentale.
Georges Perec, che omaggia Nabokov nel Post-Scriptum di “La vita, istruzioni per l’uso” e di cui, si legge in una pagina del 1981, avrebbe voluto «fare la conoscenza», se solo lo scrittore russo fosse stato ancora in vita, ha sì mostrato di condividere la sua idea di un “realismo del particolare”, ma ne ha preferito, sulla scorta di Brecht, una declinazione “en situation” che permettesse di mettere gli elementi formali al servizio d’una rappresentazione della realtà concreta, pur senza negare qualche astrattezza. A darne prova concorrono soprattutto i testi raccolti ne “L’infra-ordinario” – appena ripubblicato da Quodlibet (pp. 120, euro 12,35), nella limpida versione di Roberta Delbono già apparsa nel 1994 presso Bollati-Boringhieri –, dove Perec coniuga una maniacale attenzione verso i dettagli con la struttura in cui essi s’inseriscono, secondo un principio d’ordine né causale né casuale, bensì potenziale. Si finisce così per dar vita a ciò che altrove Perec stesso definisce un «puzzle». In questo il singolo pezzo non significa niente, è «semplicemente domanda impossibile, sfida opaca»; ma se appena si riesce a connetterlo con uno dei pezzi vicini, ecco che quello sparisce, cessa di esistere in quanto pezzo, per lasciar spazio ad una forma a cospetto della quale i pezzi ricomposti assumono un carattere leggibile, un senso.
Ciò che Perec nomina “infra-ordinario” e che coincide con «quello che succede ogni giorno e che si ripete ogni giorno, il banale, l’evidente, il comune, il rumore di fondo» ha il carattere proprio della tessera d’un puzzle che si pone, per «determinata casualità», entro quel “mondo della vita” nel quale siamo immersi con tanta evidenza da averne dimenticata l’origine. Descrivere quello che generalmente non si nota implica da un lato provvedere all’enumerazione d’ogni singolo accadimento, e dall’altro rappresentarlo per mezzo d’una continua negoziazione di continuità e discontinuità, realizzando un’enciclopedia di circostanze capaci di creare una tassonomia d’eventualità idealmente infinite.
Ne sono esempio le “Duecentoquarantatré cartoline illustrate a colori autentici”, che, per Perec, sembrano dover raccogliere in un'unica confezione «il senso dell’oggi che» – come scrisse Calvino celebrando Perec quale massimo rappresentate d’una letteratura che ha nella regola formale e strutturale la propria libertà – «è anche fatto di accumulazione del passato e vertigine del vuoto, la compresenza continua d’ironia e angoscia». I medesimi sentimenti che traspaiono dall’ipotiposi, dalla vivida rappresentazione, con la quale viene inventariata da Perec la propria scrivania, come si trattasse d’una natura morta in cui il fondo scuro d’una memoria obliqua (la stessa che a più riprese gli fa percorrere e illustrare, ormai adulto, la natia rue Vilin coinvolta in sempre nuove metamorfosi) campisce i diversi oggetti, facendoli risaltare in modo tanto preciso che finisce per diventare irreale.
Come Francis Ponge, al quale esplicitamente si richiama, Perec ambisce a restituire la fisicità del mondo attraverso l’inafferrabile inconsistenza della parola. Non vi è tuttavia in lui l’ambizione di spiegare tutto. Egli preferisce anche per questo non dirsi “autore”, ma “testimone”. Solo quest’ultimo può salvaguardare l’essenza dell’infra-ordinario: se egli è singolare e insostituibile, la sua testimonianza è invece ripetibile: in una volta, è già più d’una, è più di un istante in un istante. E non si tratta di attestare qualcosa di sorprendente o di meraviglioso; al contrario, è alla «familiarità ritrovata», allo «spazio fraterno» che occorre concedere una lingua. L’immanenza – la vita – è refrattaria al commento, ma si concede alla descrizione per mezzo della quale avviene, per continue approssimazioni, l’affioramento di ciò che ci circonda alla visibilità. Il che non è forse altro che una decisione per una vita secondaria: vivere per poter guardare la vita.