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Confusione e creazione, nel libro di Francesco Piccolo
La festa di chi sceglie il lavoro invece dell’amore: la Cardinale dal “Gattopardo” a “8 e 1/2”, nell'ultima opera dello scrittore Premio Strega
Il mondo si divide tra coloro che sceglierebbero il lavoro (l’opera) e coloro che sceglierebbero l’amore. Per ammirazione, e quindi per amore di Fellini, Sandra Milo decide di partecipare a Otto e mezzo, dopo essersi ritirata dal cinema. All’inizio era irremovibile, ma Fellini d’accordo con il marito le tese un agguato: arrivò a casa sua una mattina con un operatore per un provino a sorpresa. Lei era appena sveglia e in vestaglia. Fellini le chiese se avesse una chitarra, lei rispose: no, però ho un gatto.
E allora Sandra Milo fa questo provino in salotto con un gatto di peluche in braccio, continuando a dire basta, non voglio pensare più al cinema, voglio fare un figlio, ho smesso. Fellini, che sceglie il lavoro, sceglie l’opera, non ha dubbi: è lei la Carla del suo film, deve solo ingrassare molto, almeno sei chili. Sandra Milo, che sceglie l’amore, non ha dubbi: quell’uomo le piace, e allora ingrasserà molto, più di sei chili. E in questa dicotomia, che ha creato il mondo che conosciamo e i suoi capolavori, dentro questa tensione continua tra una cosa e l’altra, Claudia Cardinale ha scelto il lavoro e anzi ancora quasi non può credere di avere questa immensa possibilità di scegliere il lavoro: correrà per mesi dal set del Gattopardo a quello di Otto e mezzo per non perdersi nessuno dei due film. Capelli nerissimi per Luchino Visconti e per Angelica, capelli castano chiari per Federico Fellini e per Claudia. Tingersi e ritingersi i capelli, imparare a dire con gli occhi una cosa che la bocca non dice, fare il sorriso materno, non sedersi mai per via del vestito, indossare un corsetto troppo stretto e trovarsi alla fine della notte di riprese una piaga circolare e sanguinante attorno alla vita.
“E’ una festa la vita”, dice Guido Anselmi, Marcello Mastroianni in Otto e mezzo, con quelle occhiaie meravigliose, con quella malinconia così egoista. Francesco Piccolo è entrato in quella festa, l’ha studiata e svelata, ne ha rivelato i tormenti, le esaltazioni e i grandi litigi, e ha portato qui, dentro questo libro, La bella confusione (Einaudi), anche la sua vita. La festa di quelli che non hanno scelto l’amore, soprattutto, la festa di quelli che provano, come Guido Anselmi, ad avere tutto e a perdere tutto. La vita interiore e la vita degli altri. Con La bella confusione (come il primo titolo che Ennio Flaiano aveva dato alla sceneggiatura di Otto e mezzo, e che a Fellini non piaceva ma che per questo libro è un miracolo di precisione), Piccolo è riuscito a mostrare la festa, dentro e fuori, della costruzione di un’opera.
Due opere in particolare, Otto e mezzo e Il Gattopardo, concepite contemporaneamente, girate contemporaneamente e uscite nello stesso irripetibile anno, il 1963: ma anche la costruzione delle opere che le hanno precedute, inseguite, e i rapporti e le coincidenze, le fatalità che le hanno determinate, il periodo storico e politico che le ha spinte, tirate a sé, stroncate e poi recuperate, amate. In questo senso, allora, possiamo dire che Francesco Piccolo ha offerto e smontato il tempo che scorre mentre si vive una vita tutta concentrata e rivolta verso qualcosa. Sono questi i casi in cui nascono le coincidenze perfette.
Federico Fellini, Luchino Visconti, Ennio Flaiano, Suso Cecchi D’Amico, ma anche Mario Soldati, Giorgio Bassani, Burt Lancaster, Giulietta Masina, Rosetta Flaiano, Marcello Mastroianni: hanno vissuto una vita intera, non solo un anno irripetibile e travolgente di cui non ci eravamo resi conto e di cui adesso possiamo godere attraverso questo romanzo, tutta rivolta verso la costruzione di qualcosa. Dentro il massimo della forza, vitale e creativa, in cui subito si insinua la decadenza e quindi l’idea della morte. Ma soprattutto dentro un cammino che non è mai lineare e che si nutre di scommesse, di ossessioni, di giravolte: non sappiamo mai, mentre facciamo qualcosa, che cosa stiamo facendo.
Non lo sapeva Fellini e non lo sapeva nemmeno Visconti. Entrambi preparavano due film attorno ai quali si è catalizzata tutta l’attenzione culturale, mondana e politica d’Italia in un modo che non esiste più, e che per fortuna non esiste più. Il Gattopardo, manoscritto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa rifiutato due volte da Elio Vittorini, riscoperto da Giorgio Bassani e Mario Soldati in una notte di lettura febbrile, è diventato un romanzo pubblicato da Feltrinelli dopo il caso del Dottor Zivago, un libro vendutissimo, prima criticato, poi odiato dal Partito comunista con una stroncatura del responsabile della cultura per il Partito, Mario Alicata; poi vincitore del Premio Strega (candidato da Ignazio Silone e Geno Pampaloni, nonostante le minacce di Alberto Moravia: è un romanzo di destra), e in seguito su ordine di Togliatti riabilitato attraverso una quasi incredibile postfazione dello stesso Mario Alicata, costretto da Togliatti a elogiare Il Gattopardo nell’edizione del romanzo per l’Unione sovietica. A questo punto Il Gattopardo è un romanzo progressista, a questo punto Visconti può fare il film che vuole fare. A rileggerle oggi, queste avventure ideologico editoriali fanno perfino ridere, ma non si può cadere nell’ingenuità di ritenerle la prova di una passione che ora è scomparsa, di una centralità della cultura e delle opere che è andata perduta. Ha ragione Francesco Piccolo quando scrive: “L’idea che tutto ciò che ho amato nella mia vita, nel cinema e nella letteratura, sia stato sottoposto a questo scempio ideologico, non mi fa indignare, mi fa soffrire. Potrei fare qui un lungo elenco di persone (mi limiterei a scrittori, intellettuali, registi) che o perché uscite dal partito, o perché su posizioni liberali, o perché anticomuniste per ragioni che si sono poi rivelate piuttosto sensate, hanno subito vessazioni ideologiche o sono state ostacolate nel loro percorso creativo. E che oggi consideriamo dei grandi artisti; o, come nel caso di Fellini, dei geni assoluti”.
Grazie a questo libro ho capito meglio quanto la vitalità sia sempre libera dall’ottusità, dalla convenienza, dal calcolo, e quanto il genio sia per sua necessità indifferente e a volte anzi in contrasto con lo spirito del tempo. Federico Fellini riesce a imporre in quel tempo, grazie all’enorme successo della Dolce vita, un film che non sa nemmeno spiegare e che non ha intenzione di spiegare, un film che racconta di un regista che dopo aver fatto La dolce vita non sa più cosa fare, e che vorrebbe tutte le donne che ha amato e che ama insieme in un harem, senza sofferenze e senza rivalità. Il film su un uomo che vuole eliminare il senso di colpa dalla sua vita, fatto da un uomo che vuole eliminare il senso di colpa dalla sua vita.
E’ questa la grande e bella confusione del genio e delle vite tutte rivolte verso qualcosa. Anche, e soprattutto, nella necessaria incoscienza di quello che si sta creando. Luchino Visconti non sapeva che stava girando un film autobiografico, non sapeva di essere il principe di Salina e di provare nostalgia per sé stesso e per il suo mondo scomparso. L’ha capito per primo Burt Lancaster, che continuava a chiedere al regista di fargli capire il personaggio e Visconti non glielo faceva capire, anzi si scocciava. Poi Lancaster si è reso conto che Don Fabrizio era davanti a lui, che Don Fabrizio era Visconti. E allora ecco che, scrive Francesco Piccolo, anche Il Gattopardo è un film autobiografico in cui l’ideologia si restringe e la nostalgia si allarga.
Non è forse una bella confusione, questa? Non è forse l’impossibilità di una separazione fra i mille piani e i mille strati di un’esistenza? Vita, letteratura, autobiografia, vicende personali, amori, disamori, tutto si specchia dentro questi due film, e adesso si specchia in questo libro fondativo, nuovo, che ha la forma di una scoperta anche interiore e che mette il mondo di Fellini e quello di Visconti uno di fronte all’altro con il loro carico di magnifiche coincidenze e conseguenze. Con il carico di esseri umani che hanno partecipato, mentito, tradito, lavorato, ricucito l’amicizia in questa bella confusione.
E pagina dopo pagina anche noi che leggiamo e scopriamo una miniera di cose che avevamo dimenticato o che ignoravamo, o che non avevamo mai pensato di avvicinare e mettere insieme, arriviamo a una conclusione che si va costruendo piano piano, che Piccolo costruisce per noi o che invece gli si è rivelata strada facendo: esiste un titolo che sarebbe stato perfetto sia per Il Gattopardo sia per Otto e mezzo: “Alla ricerca del tempo perduto”. Esiste Proust che ci tiene insieme, e che fa risuonare a ogni passo qualcosa di noi. Il momento in cui abbiamo visto per la prima volta questi due film, e tutti gli altri, le rivelazioni su Ennio Flaiano, la grandezza misteriosa e allegra di Suso Cecchi D’Amico, il suo talento per il lavoro e per i rapporti umani. La grande libertà di un gruppo di persone che hanno lavorato sempre per la propria passione e per la propria curiosità, mettendole davanti a ogni convenienza e anche davanti a ogni dolore. Ci sono aneddoti indimenticabili (una volta Lucherini era in auto con Visconti a Piazza del Popolo, si sono fermati davanti a Canova e c’era Fellini che ha girato la testa e li ha visti; e Visconti ha detto subito: chiudi il finestrino perché ho paura che Fellini sputi dentro la macchina), ci sono cattiverie ferocissime e riappacificazioni ironiche e schive. C’è soprattutto il senso di avere fatto parte di qualcosa, anche nell’inconsapevolezza dei macchinisti, nel silenzio di Giulietta Masina, nei capelli di Claudia Cardinale e nell’ammirazione di Francesco Piccolo che da ragazzo a Caserta vedeva tre volte alla settimana Otto e mezzo in videocassetta e suo fratello, per prenderlo in giro, lo chiamava: Fellini.
Questo libro non è mai un saggio sul cinema, ma è il romanzo personalissimo sulla felicità di stare al mondo per fare qualcosa di bello, e sulla costruzione e accettazione della vita attraverso il cinema e la letteratura. Attraverso il sogno di Guido Anselmi e quello del Principe di Salina. Attraverso le persone che hanno fatto il cinema e la letteratura e le persone che sono ancora e sempre, prima di tutto, spettatori e lettori. Bisognosi di una bella confusione in cui continuare a specchiarsi.