Will Liverman nella produzione The Family Barber per la stagione 2013/14 (foto via hwww.lyricopera.org) 

Con "The factotum" l'opera si fa hip-hop e l'hip-hop si fa opera

Mario Leone

La nuova opera del tenore Will Liverman e del dj e producer King Rico prende spunto dal “Barbiere” di Rossini. Un’esperienza dove tutto il patrimonio musicale black converge su un palcoscenico operistico

Un barbiere di colore del sud di Chicago. Il suo salone e il via vai di persone che si fanno belli. Un’umanità variegata perché tutti hanno bisogno di tagliarsi i capelli, e in un salone chiunque può entrare: dal professore, al manager sino all’assassino. L’unica certezza è il barbiere che ti aspetta. Una sorta di confessore laico capace di ascoltarti al suono di forbici e pettine. E’ qui che si ambienta “The factotum” nuova opera del tenore Will Liverman e del dj e producer King Rico. Un lavoro che prende spunto dal “Barbiere” di Rossini - “Largo al factotum”, canta Figaro nella seconda scena del primo atto - “rubandone” suggestioni e melodie, aspetti rielaborati e inseriti in un nuovo lavoro operistico. La prima mondiale al Lyric Opera di Chicago è molto attesa.

    

Liverman e King Rico sono cresciuti insieme. La formazione presso “The Governor's School for the Arts” in Virginia e la vita segnata da Robert Brown, docente di canto dal background gospel che ha insegnato loro come l’opera e la musica possano essere uno spazio fertile per la sperimentazione e la libertà.

  

    

Un’ottima idea nasce sempre da un grande desiderio. Liverman guarda un documentario sul musical “Rent”, lavoro di Jonathan Larson ispirato a “La bohème” di Puccini. “Mi chiedevo – dice il cantante sulle colonne del New York Times - perché altri classici della lirica non vengono riproposti creando una nuova narrativa che recuperi la storia e racconti qualcosa di significativo per i tempi che viviamo?". Nel giro di poco tempo al tenore e al dj si unisce Rajendra Ramoon Maharaj che cura libretto e regia. L’idea su cui si fonda questo progetto è: “L’opera può essere hip-hop e l'hip-hop può essere opera. D’altronde le note sono le stesse”; un’esperienza dove tutto il patrimonio musicale di colore converge su un palcoscenico operistico.

 

Con l’avanzare del lavoro i due artisti capiscono che la composizione può prendere vie inaspettate. Si parte per realizzare un’idea e si giunge altrove. Liverman spiega come la voce lirica può adattarsi bene a diversi stili senza risultare goffa e decontestualizzata. Anzi, la commistione di generi e stili raggiunge un pubblico più vasto.

 

Nel “Factotum” è presente il tema razziale, il perdurare di violenze che nascono dal colore della pelle. Una denuncia delle condizioni che le persone di colore devono ancora oggi vivere. “C’è tanto dolore – dice Liverman - ma non volevamo rappresentare solo quello. Nella bottega del nostro barbiere c’è anche tanta gioia”.

 

Anthony Freud, presidente e direttore generale del lirico di Chicago, ha definito il lavoro “una sorta di complesso arazzo dove convergono diversi stili musicali. Una partitura pensata per voci «classiche» che riesce a espandere la forma d’arte”.

 

La bontà di questa iniziativa la scopriremo solo dopo la prima esecuzione. Sicuramente c’è un tentativo che va evidenziato e dovrebbe essere accolto. Dividere la musica in generi chiusi, in comparti stagni, non produce frutti. “La musica è bella o è brutta” questa l’unico discriminante per Leonard Bernstein. Un cantante può interpretare un’aria in stile hip hop, l’importante che questa sia scritta bene testualmente e musicalmente; coerente con la dinamica di tutta l’opera. Il cantante non deve scimmiottare il rapper e viceversa. Il cantante deve essere “esatto” e “dentro” quello che interpreta.

 

L’opera può e deve aprirsi ad altre soluzioni, favorire nuovi linguaggi, non temere la sperimentazione. I cartelloni dovrebbero rischiare programmando nella stessa stagione “La traviata” e “The factotum”. Qui non si tratta di avvicinare i giovani alla musica (ho visto tanti giovani esaltarsi per l’amore dannato e mortifero di Aida e Radamès) ma avere la capacità di allargare il repertorio, stimolare il confronto, non temere il poco conosciuto. In Italia dibattiamo ancora sui Måneskin e il loro presunto danno alla cultura. Facciamo ancora “buu” dai loggioni dopo tre minuti di musica e si fatica a trovare concerti di musica contemporanea. Sfido a leggere nelle stagioni 2022 – 2023 dei teatri lirici italiani due nuove (forse anche solo una) commissioni operistiche. Spero di essere smentito. Intanto gioisco di fronte a qualcosa di nuovo da scoprire.

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