Il voyeurismo dei naufragi
Artisti e scrittori ci fanno osservare morte e distruzione a debita distanza. In agguato c’è il pericolo dell’indifferenza
Non disse: vi andiamo a prendere noi, non partite. Tanto meno che era meglio che con quel tempaccio lasciassero a casa i bambini. Disse: “Posso soltanto sperare che l’altra parte del mondo, che prova un affetto così profondo per questi delinquenti, tramuti quell’affetto in aiuto concreto. Noi, dal canto nostro siamo pronti a mettere questi delinquenti a disposizione di quei paesi anche a bordo di navi di lusso”. Così Adolf Hitler, nel 1938, alla vigilia della Conferenza internazionale di Evian, convocata da Roosevelt per coordinare l’accoglienza dei profughi dalla Germania nazista. Per l’ideologia nazista era un’operazione di polizia, certo non di salvataggio. Roosevelt era sotto tiro. Il Congresso e l’opinione pubblica americana, aizzata dai giornali di destra, pretendevano il blocco dei porti. La Conferenza di Evian si rivelò una scappatoia per alleggerirsi la coscienza. Durò otto giorni, parteciparono 32 nazioni, più 39 organizzazioni non governative. E oltre 200 giornalisti. Fu un flop totale. Nessuno li voleva i profughi ebrei. La Gran Bretagna mise le mani avanti: “Ne abbiamo già troppi”. L’Australia promise di accoglierne 15.000, ma in tre anni, puntualizzando: “Noi non abbiamo problemi razziali, non abbiamo alcun desiderio di crearceli”. La Francia, dove al governo non c’era più il Fronte popolare, aveva appena introdotto una sorta di “prima i francesi” nelle assunzioni. La Svizzera, che aveva rifiutato di ospitare la Conferenza, rivendicò che il suo paese doveva proteggersi dall’“immenso flusso di ebrei viennesi”. Solo la Repubblica dominicana del dittatore Trujillo si disse disponibile. A pagamento. Era una trappola, li mandarono a morire di malaria in una zona paludosa. Il Völkischer Beobachter, l’organo del Partito nazista, titolò soddisfatto: “Nessuno li vuole”.
Pochi paesi permettevano di sbarcare alle navi cariche di ebrei in fuga dal nazismo. Sorprende che l’Italia li abbia accolti fino al ’40
Il rappresentante personale di Roosevelt alla Conferenza, un imprenditore privato, non un diplomatico, promise che ne avrebbero accolti 30.000, compresi ebrei austriaci (c’era appena stato l’Anschluss, giusto nei giorni della Conferenza gli amici erano riusciti a convincere Sigmund Freud, una celebrità mondiale, a raggiungere fortunosamente Londra, ma le sorelle sarebbero morte in campo di sterminio). Ma poi anche loro avrebbero negato lo sbarco a navi cariche di profughi. Talvolta, come nel caso della Drottningholm, proveniente dalla Svezia con centinaia di profughi ebrei, la scusa fu che uno di loro sarebbe stato una spia al soldo dei nazisti. Nel giugno del 1939 al St. Louis, con 937 passeggeri, quasi tutti ebrei, fu negato lo sbarco a Miami e gli fu ingiunto di riattraversare l’Atlantico, per riportarli nel paese di origine, la Germania. Il capitano tedesco della nave disubbidì alle autorità del suo paese e li sbarcò invece ad Anversa, in Olanda. Il che non impedì che due terzi finissero poi comunque ad Auschwitz. Altre navi cariche di profughi ebrei furono respinte e poi naufragarono nel Mediterraneo o nel Mar Nero. Suonerà sorpresa a molti che il paese europeo che continuò ad accogliere profughi ebrei fino al maggio 1940 fosse l’Italia fascista, che pure aveva imitato nel 1938 le leggi razziste di Hitler.
“Saccheggiatori di resti di naufragi” è il titolo di un dipinto di Turner. In Scozia e Galles prosperavano le bande di “wreckers”
Di naufragio si muore per fatalità, o per omissione di soccorso. O anche perché qualcuno fa affondare la barca di proposito. Non si butta via niente di quel che distrugge il mare. “Saccheggiatori di resti di naufragi” è il titolo di un dipinto del 1835 di William Turner. Le figure che si dirigono verso il relitto lungo la spiaggia sembrano avvoltoi diretti ad arraffare quello che il mare ha sputato dopo averlo divorato. Sulle coste dagli scogli aguzzi della Scozia e del Galles prosperavano un tempo i “wreckers”, bande organizzate da imprenditori senza scrupolo, che attiravano deliberatamente i velieri in difficoltà per la tempesta sugli scogli, per poi saccheggiare il relitto. Erano specializzati nell’accendere fuochi e fare altri falsi segnali. Un antenato di Robert Louis Stevenson, il grande narratore di naufragi e storie di pirati, pare avesse avuto a che fare con forti ostilità locali alla costruzione di fari in Scozia. Perché gli toglieva una fonte di reddito. Secondo la ricercatrice Bella Bathurst, autrice di diversi libri sull’argomento, ci sarebbero state centinaia di naufragi dovuti al deliberato posizionamento di “false luci, falsi porti e ancoraggi, falsi soccorritori” e persino “casi di interi tratti di costa meticolosamente messi in scena come fossero fondali di teatro”, al fine di attrarre vascelli in difficoltà.
Il naufragio, la furia del mare in tempesta, è sempre stato anche un grande spettacolo. A teatro (si pensi alla Tempesta e a tutte le altre opere di Shakespeare in cui ci sono naufragi raccontati o rappresentati in scena), in letteratura, in pittura. I musei di tutto il mondo sono pieni di opere di artisti che si sono cimentati col tema del naufragio, dai romantici a Turner. Non c’è solo il solito Géricault, con la sua “Zattera della Medusa”, una metafora, secondo diversi critici, della dissoluzione della Francia dopo il crollo dell’Impero napoleonico. “Il mare ruggisce, i venti sibilano, il tuono romba; il bagliore pallido e tetro dei lampi trapassa le nubi, mostra e cela la scena. Si sente il rumore delle fiancate della nave che si spezzano; gli albero sono piegati, le vele strappate: alcuni, sul ponte, levano le braccia al cielo, altri si lanciano in acqua. Sono trascinati dalle onde sugli scogli vicini, e il loro sangue si mescola al bianco della schiuma. Li vedo galleggiare, sono sul punto di scomparire negli abissi; li vedo cercare disperatamente di raggiungere la riva, contro cui andranno a fracassarsi. La stessa varietà di caratteri, azioni ed espressioni si rispecchia negli spettatori: alcuni rabbrividiscono e distolgono le sguardo, altri prestano aiuto; altri ancora, immobili, stanno a guardare”. Così Diderot commenta il dipinto di Claude-Joseph Vernet esposto al Salon de 1765. L’autore dell’Encyclopédie si emoziona, si commuove, va in estasi. Vernet dipinge un’infinità di naufragi. Riceve commissioni per centinaia di opere sul soggetto da ogni angolo d’Europa. E li ambienta in genere giusto presso la costa, a pochi metri dalla possibile salvezza, per poter rappresentare, oltre ai naufraghi, spesso esanimi sulla battigia colma di residui della catastrofe, anche i soccorritori o gli spettatori del dramma.
“Non c’è niente di più orribile che vedere degli uomini morire così vicino a noi che basterebbe un braccio teso per salvarne qualcuno”
Naturalmente non sono testimonianze. Nessuno di questi pittori ha mai assistito ad un naufragio. Ma lo inventano in modo stupendo. Un altro stakanovista della rappresentazione del naufragio, anche lui richiestissimo, è Ivan Konstantinovic Ajvazovskij, russo di Crimea, figlio di un mercante armeno. Potrebbero rivendicarlo anche gli Ucraini: era nato a Feodosia, sul Mar Nero, che era Ucraina prima che Mosca rioccupasse la Crimea. I suoi oltre 6.000 dipinti censiti sono quasi tutti paesaggi marini. In qualcuno c’è la guerra navale. E ci sono i profughi, come nella serie dei massacri perpetrati contro gli armeni sotto il sultano Abdul Hamid, l’ultimo. Moltissime le tempeste e i naufragi. In uno, intitolato appunto “Naufragio”, a cui il pittore teneva in modo particolare, tanto che lo donò alla sua città natale, dalle onde emerge una nave su cui si affollano i superstiti, che si sbracciano per indicare l’avvicinarsi a una scogliera. Sopra la nave e il mare infuriato un’intensa luce arancione che contrasta con i toni del blu, del bianco e del violetto utilizzati per cielo e il mare. In primo piano, a terra, un gruppo di figure umane, testimoni impotenti della tragedia che si sta consumando, sta osservando da lontano e attende l’esito della vicenda. Sembra, osserva Esperanza Guillén, autrice di un denso e molto illustrato (purtroppo solo in bianco e nero) saggio su Naufragi. Immagini romantiche della disperazione (Bollati Boringhieri 2009), un’immagine tratta dal romanzo ottocentesco Melmoth, l’Errante, di Robert Maturin, l’anticipatore dell’horror “gotico”, del Dracula di Bram Stoker e del Frankenstein di Mary Shelley. “Melmoth vide la nave, e la sua posizione disperata. Giaceva, abbattuta sopra uno scoglio, contro il quale le onde si rinfrangevano in pennacchi di spuma alti fino a quindici metri. Era per metà sommersa, una misera carcassa […] e a ogni onda udiva le grida dei poveretti che l’acqua trascinava via […]. Non c’è niente di più orribile che vedere degli uomini morire così vicino a noi che basterebbe un piede piantato saldamente o un braccio teso per salvarne qualcuno…”.
Più metafisico, anche se manca completamente il movimento, è il Mare di ghiaccio di Caspar David Friedrich, dipinto nel 1823. I resti di una nave (probabilmente quella di Willian Edward Parry nella prima spedizione al Polo Nord) sono stritolati da lastre di ghiaccio che si sovrappongono ed emergono e si innalzano dalla banchisa come faglie aguzze di un movimento tettonico, o come i piani di un edificio che il terremoto ha fatto accartocciare uno sull’altro. O come macerie di edifici rasi al suolo dai bombardamenti o dai missili. Non si possono immaginare superstiti. La natura, quella matrigna di Leopardi, che non si cura per nulla dell’uomo, l’ha schiacciato.
“La nostra situazione era veramente terribile; vedevamo tutti chiaramente che la barca non avrebbe potuto resistere a un mare così tempestoso, e che saremmo irrimediabilmente annegati […] sapevamo tutti che quando la barca fosse arrivata nei pressi della riva sarebbe stata mandata in frantumi contro di essa dalla violenza del mare […]. Ma quanto più ci avvicinavamo a riva, la terra ci si mostrava ancora più minacciosa del mare…”. Così, nel Robinson Crusoe di Daniel Defoe, l’approccio a terra della scialuppa dopo il naufragio della loro nave. L’altro suo romanzo, appena meno famoso di questo, Diario dell’anno della peste, parla di una catastrofe ancor più collettiva: la grande epidemia.
Nell’immaginario dell’Inghilterra, isola e potenza marinara, prevalgono decisamente gli incidenti in mare. Charles Dickens, in un articolo pubblicato su Household Words (sì, prima che romanziere era soprattutto giornalista) il 14 giugno 1851, così descrive una casa dei bassifondi londinesi da lui visitata al seguito dell’ispettore Field, della Polizia metropolitana: a tutte le pareti illustrazioni di “naufragi, combattimenti navali, navi a fuoco, navi che passano davanti a scogliere frastagliate sormontate da fari, navi che esplodono, navi che affondano, navi che si incagliano […] marinai e navi rappresentati nelle illustrazioni in ogni declinazione di pericolo…”. Secondo le statistiche della compagnia di assicurazione Lloyd’s, accurate quando si tratta di soldi, solo tra il 1864 e il 1869 andarono perduti 10.000 bastimenti, con migliaia di vittime. Almeno morti 5.000 l’anno tra i soli marinai, secondo un’altra fonte di statistiche, il Book of the Ocean. Si capisce il grande successo popolare della shipwreck literature e della cosiddetta shipping intelligence, sui naufragi.
Non per niente è la letteratura anglosassone ad aver inventato, oltre al poliziesco, anche l’horror fantastico. Il Moby Dick di Herman Melville (1851) segue di appena un decennio Una discesa nel Maelström di Edgar Allan Poe (1841) e la di poco precedente Storia di Arthur Gordon Pym (1837). Sono racconti insuperabili di naufragio e orrore esistenziale. Al francese Eugène Delacroix, che pure dipingeva anche lui naufragi, e ancora più terribili dopo-naufragi, suonavano esagerati. “La sensazione del terribile e ancora più quella dell’orribile non si possono sopportare a lungo. Lo stesso dicasi del soprannaturale. Leggo da qualche giorno una storia di Edgar Poe, quella di naufraghi che per cinquanta pagine sono nella condizione più orribile e disperata: non c’è nulla di più noioso. Vi si ritrova il cattivo gusto degli stranieri”, annota Delacroix nel suo Diario. Da notare il riferimento sprezzante del francese agli “stranieri”, nel caso specifico gli americani.
“Tutto ciò che può causare in qualche modo idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è, in qualunque caso, terribile o che tratta di oggetti terribili oppure opera in maniera analoga al terrore […] produce la più forte emozione che l’animo sia in grado di provare” notava molto prima, già nel 1759, il conservatore, anzi il reazionario doc, per eccellenza Edmund Burke, britannico inorridito denigratore della Rivoluzione francese.
“Naufragio con spettatore” è un saggio di Blumenberg, il filosofo della metafora: è antichissima quella dello stato che va a fracassarsi sugli scogli
C’è anche del voyeurismo nell’assistere alle catastrofi. Specie le catastrofi altrui, quelle lontane, che non ci toccano immediatamente. Naufragio con spettatore è il titolo di un saggio di Hans Blumenberg, il filosofo tedesco della metafora, dell’analogia, e della sua funzione nella comprensione del mondo e della storia. La metafora della nave dello stato che va a fracassarsi sugli scogli è antichissima. E’ da parecchi anni che cerco di dire la mia su queste ospitali colonne per analogie. Il mio Sindrome 1933, sull’anno in cui fu fatto cancelliere Hitler, era, nelle intenzioni, un libro scaramantico. Inorridisco alla possibilità che possa rivelarsi profetico. Il naufragio di Cutro, il disastro ferroviario in Grecia (la letteratura del Novecento è costellata da un’epica dei disastri ferroviari, quanto quella dei secoli precedenti da un’epica dei naufragi), il terremoto in Turchia e Siria, la guerra in Ucraina. Lo storico LeRoy Ladurie osservava che la peste nera aveva conseguito “l’unificazione del pianeta mediante la malattia”. Effettivamente le grandi catastrofi unificano il mondo. Sono la nuova globalizzazione. Salvo obliarle poco dopo (qualcuno ricorda cos’era il Covid?). L’imprevedibile in agguato per tutti produce un brivido anche in chi vi assiste solo sul teleschermo, al sicuro in casa propria. Purché non si trasformi in assuefazione o noia.