Scrittori e finestre
Le pene agresti di Alice Robb, romanziera e ballerina, in una comunità di artisti
Yaddo è una colonia per scrittori che ha felicemente accolto negli anni penne del calibro di J. G. Ballard e Philph Roth. La residenza calca il mito della solitudine, ma c’è chi vuole il viavai: come l'autrice dell'articolo apparso su Literary Hub
Diceva Arthur Koestler che gli scrittori sono di due tipi: quelli che piazzano la scrivania davanti alla finestra – così possono farsi belli con la frase di Joseph Conrad: “Mia moglie non capisce che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando”. E quelli che preferiscono guardare la parete, o magari gli scaffali della propria libreria. Tutte le altre manie – pelle di coccodrillo appesa al muro, libri che la cameriera levò dagli scaffali per spolverare, rimettendoli a caso, e così sono rimasti – sono secondarie. A Yaddo, colonia per scrittori di Saratoga Springs, hanno soggiornato André Aciman (lanciatissimo dopo “Chiamami con il tuo nome” by Luca Guadagnino), James G. Ballard, Saul Bellow, Donald Antrim, Paul Auster. Siamo solo alle prime lettere dell’alfabeto, andando avanti troviamo una giovanissima Patricia Highsmith. Philip Roth c’è tornato sette volte, lo racconta in “Lo scrittore fantasma”. Tutti con profitto, sembra. Nessuno si è mai lamentato, perlomeno pubblicamente.
Fino a qualche giorno fa, quando abbiamo letto su Literary Hub un articolo di Alice Robb, romanziera ed ex ballerina classica, che a Yaddo si è trovata malissimo. C’era la finestra, certo. Una finestra a tutta altezza, dal pavimento al soffitto, affacciata sul giardino con alberi e fiori. Forse la stanza aveva anche il letto a baldacchino che le fotografie promozionali mostrano sul sito – senza neppure aggiungere “l’immagine ha il solo scopo di presentare il prodotto, dormirete su tavolacci che stimolano la creatività”.
Tutto perfetto, il cibo sano e cucinato da professionisti. Purtroppo c’era il Covid, e bisognava mangiare distanziati. Quanto al divieto di smartphone e all’assenza di connessione internet, erano nelle regole d’ingaggio, non ci si può lamentare. Solo un vecchio telefono fisso, che non serve per chiamare ma per ricevere telefonate dall’esterno (previo appuntamento, da prendersi nell’edificio principale, solo in caso di necessità). La prima notte scoppia un temporale. Alice Robb, che a casa sua dormiva con una colonna sonora artificiale di tuoni e pioggia scrosciante, si rende conto che “in campagna è un’altra cosa”. Vorrebbe cercare “orsi” e “orientamento nei boschi” sull’iPhone, che però non prende. Si ritrova sola e smarrita, ancor prima di mettersi alla scrivania e buttar giù le due o tremila parole che aveva in programma.
“Avrei scoperto che ero una scrittrice lenta, non era colpa della dipendenza da Twitter”, pensa Alice Robb, che ha nel bagaglio libri di studio e libri per svago. Beata illusione, che non tiene conto dei precedenti. Se Jonathan Franzen, ancora prima che inventassero il wi-fi, aveva riempito di colla liquida la presa del computer che lo collegava al mondo, aveva i suoi buoni motivi (infatti scrisse “Le correzioni”: ora si lascia distrarre soltanto dal birdwatching). Il romanzo non avanza, Alice Robb finisce per guardare, di nascosto, vecchie puntate di un varietà televisivo – una cosa tipo “Il paradiso dei single” – che aveva scaricato nel computer. Riesce così a sentire qualche voce umana. E noi convinti che le colonie per scrittori fossero come le gite scolastiche, allegre e promiscue: anche lo scrittore adesso è sobrio (e dalle pagine si capisce).
Rivelazione finale. Alice Robb riesce a scrivere solo in mezzo alla gente. Faceva i compiti durante le prove dello “Schiaccianoci”. Oppure al tavolo di cucina. Del resto, anche Jane Austen scriveva in una stanza di passaggio, su un tavolino portatile. Invece di ritirarsi per qualche settimana a Yaddo (o altro luogo simile, ce ne sono anche in Italia) sarebbe stato più utile il bar sotto casa, spostando la ciotola delle noccioline.