FACCE DISPARI

Piersandro Pallavicini: “L'ironia è la chimica della scrittura”

Francesco Palmieri

"Mi annoio meno tra i chimici. Tra scrittori pare di essere fra quei ragionieri che parlano degli intrighi della ditta. Quando mi trovo a un festival letterario, sto da solo e cerco un buon ristorante". Il suo ultimo romanzo è “Il figlio del direttore”

Quella di Piersandro Pallavicini rientra fra le vite felicemente complicate di chi si dedica per forza o per amore a due attività così distanti da imporre due diversi biglietti da visita. Su Google sotto il suo nome esce “scrittore”, ma la maggiore quantità del tempo la dedica all’insegnamento della chimica inorganica come ordinario all’Università di Pavia. Contando illustri precedenti, da Primo Levi al musicista Aleksandr Borodin, incuriosisce ma non sorprende la riconfermata discrezione di questa scienza rispetto alle lettere e alle arti.

  

La biografia di Borodin scritta da Nina Berberova fu tradotta in italiano col bellissimo titolo “Genio e regolatezza”. Ci si ritrova?

Sul genio non metterei la mano sul fuoco. Sulla regolatezza sì, anche nella scrittura. Tendo alla prosa cartesiana, rifuggendo dal belcantismo della frase e dalle tentazioni immaginifiche. Preferisco lo stile dello scienziato, che mette sulla carta le proprie scoperte con la maggiore chiarezza possibile. Se vogliamo restare nella letteratura, faccio mia la lezione di Raymond Carver. Niente trucchi.

 

Convivono bene il professore di chimica e lo scrittore? Come le piacerebbe essere ricordato?

Per entrambe le cose. Quando i colleghi accademici s’interessano a me come scrittore m’arrabbio, vorrei essere considerato solo un bravo chimico. Lo stesso vale all’inverso: se mi chiamano a parlare dei rapporti tra scienza e letteratura, su cui peraltro è stato detto tutto, declino l’invito. O l’una o l’altra.

 

Qual è stata tra le due la prima passione?

La chimica era il mio sogno da bambino. La letteratura l’ho scoperta solo all’università, prima divoravo fumetti e libri di Wodehouse. Poi l’illuminazione grazie alla rubrica Culture Club, che Pier Vittorio Tondelli teneva sul mensile Rockstar. Se invece dovessi citare un libro, uno solo di quelli che ti fanno innamorare, direi “Dimmi da quanto è partito il treno” di James Baldwin.

 

Nel suo ultimo romanzo “Il figlio del direttore”, pubblicato con Mondadori, il protagonista è un raffinato libraio per bibliomani che si muove tra la provincia e la Costa Azzurra facendo i conti col padre morto ma incombente. E ha compiuto sessant’anni. Come lei.

C’è in ogni romanzo un distillato di esperienza personale. Il sessantesimo anno lo sto vivendo come un passaggio differente dagli altri. Dai 40 ai 50 non mi ha fatto un baffo mentre oggi avverto la transizione, come se la data di garanzia fosse scaduta, come se fosse l’attraversamento di una linea d’ombra. Scriverne stempera le paure e le ossessioni. I due temi del libro sono la solitudine, perché il mio personaggio non ha più nessuno, e il disvelamento dei segreti di famiglia. Che, per la mia generazione, erano quasi sempre riposti nella biografia dei padri, dove si celavano storie che non avevi immaginato per tutta una vita.

 

Quanto è cambiata la provincia del nord rispetto a quella di Piero Chiara, al “Signore & Signori” di Pietro Germi?

È molto più sfumata: Pavia, Cremona, Mantova, Vigevano, Como si dissolvono in periferia metropolitana. La lente d’ingrandimento sugli accadimenti locali s’è appannata e anche la voglia di recepire le storie altrui. Il tessuto sociale s’è mescolato, le famiglie si sono disciolte in tanti altrove.

 

La sua identità letteraria è dispari rispetto alle tendenze attuali.

Perché, c’è un gusto letterario definito in Italia? L’unico fenomeno evidente mi sembra l’avvento e la presa di potere dei libri gialli e dei commissari. Poi su scala minore il successo del dolorismo come valore aggiunto del racconto: sfighe e malattie spaventose paiono più meritevoli di narrazione dei piaceri e del successo. Trovo scorretta, oltreché noiosa, questa pesca nel torbido. Spero che sparisca.

 

Se c’è, vuol dire che interessa il pubblico.

Forse l’esposizione del dolore piace perché appaga certi sensi di colpa. Si avverte responsabilità verso la sofferenza altrui e leggerla diventa un modo per smorzarla. Dopodiché, chiuso il libro, la maggioranza se ne sbatte altamente.

 

Ha un antidoto chimico?

L’ironia. Nei libri e nella vita è l’arma fondamentale di salvezza, soprattutto per chi come me, da scienziato miscredente, pensa che un bel giorno finisca tutto. A fronte di tale disarmante evidenza preferisco il sorriso alla disperazione.

 

Borodin era contento quando per un’influenza non andava in laboratorio e restava a casa a comporre. Lei come fa?

Passo fino a dieci ore al giorno all’università. Perciò per scrivere approfitto dei weekend, delle vacanze estive e di Natale. Sono la mia riserva scrittoria.

 

Si diverte di più tra i chimici o tra gli scrittori?

Mi annoio meno tra i chimici. Se non altro nell’ambiente accademico si parla più di scienza che di pettegolezzi universitari. Tra scrittori, salvo alcune eccezioni, quasi mai si discorre di letteratura: pare di essere fra quei ragionieri che parlano degli intrighi della ditta, del capufficio, della carriera. Quando mi trovo a un festival letterario, sto da solo e cerco un buon ristorante.

 

I suoi studenti sanno che scrive?

Sì, ma non lo pubblicizzo, e credo che gli iscritti al primo anno ancora non lo sappiano. I più lo apprendono da Internet.

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