“Non siate anime morte"
La preghiera di Gogol. Gli scritti spirituali inediti e l'ascetismo del genio che odia se stesso
Un contributo prezioso che permette al lettore di sbirciare nei cassetti e di farsi un’idea del travaglio e dell'anima angosciata dello scrittore
Vissariòn il Furioso: veniva soprannominato così il giovane Belinskij, ventitreenne autore di quelle “Memorie letterarie” che, nel 1834, inaugurarono il giornalismo intellettuale in Russia. Stile caustico e pugnace da impetuoso rompicoglioni, Belinskij era uno sfrontato di prima grandezza, un veemente, un audace sostenitore delle nuove generazioni e di quel rinnovamento radicale di cui era convinto che il mondo letterario e civile russo avesse disperato bisogno. Animatore degli occidentalisti, grande cavaliere di una letteratura moderna e progressista, di fatto Belinskij scriveva come un cane, con prolissità e sciattezza, ma fu sempre sincero e innegabilmente coerente nel tener fermi i princìpi della propria visione letteraria, e pazienza se oggi risulti superata o perfino inaccettabile – D. P. Mirskij, nella sua “Storia della Letteratura russa”, ne sintetizza così gli aspetti meno pregevoli: “La prurigine dell’esprimere idee e il dilagare dei luoghi comuni della critica romantica”.
Il 15 luglio 1847 Belinskij prende carta, penna e calamaio e scrive a Gogol’, in seguito alla pubblicazione dei “Brani scelti dalla corrispondenza con gli amici” – che non erano per niente scelti, e nemmeno la corrispondenza esisteva. Ma ciò che è più importante – questo sì, esisteva – era il discredito che il circolo di Belinskj (Dostoevskij compreso) gettò senza mezzi termini sulla scelta di Gogol’ di “deporre la penna e darsi alla preghiera”.
Lo splendido editore Aragno, con la curatela di Lucio Coco, manda in libreria questo “Non siate anime morte… Scritti spirituali inediti” (pp. 147, euro 15) che permetteranno agli appassionati di sbirciare nei cassetti e di farsi un’idea del travaglio dello scrittore. Dal canto suo, Belinskij, in aperta polemica col nuovo corso gogoliano, ne decapitò così le ambizioni letterario-spirituali: “La Russia vede la sua salvezza non nel misticismo, nell’ascetismo, nel pietismo, ma nei successi della civiltà, dell’educazione, dell’umanitarismo. Essa non ha bisogno di predicatori né di preghiere, ma del risveglio nel popolo del sentimento della dignità umana”. Un mese dopo Gogol’ gli rispose da Ostenda, rimproverandolo del fatto che gli sfuggissero molte cose, tra le quali la dimensione spirituale della vita, “che integra la realtà, e non è una via di fuga da essa, ma un modo di contemplarla”.
Al lettore di oggi sembra più acuta questa risposta che il tono di tutto il pensiero spirituale gogoliano, e non tanto per ciò che lo scrittore elabora in sé, quanto per l’inevitabile lettura, che s’impone in filigrana, della sua personalità, di cui è difficile non tener conto – complessi senza bandolo, cubitali ossessioni ipocondriache, furenti manie di persecuzione. Ma il testo resta comunque un contributo prezioso, se non altro della lotta sanguinosa, tipica di un esemplare psicologico: il genio che odia se stesso.
La predicazione morale che Gogol’ affidò alla carta risente della rinuncia a comporre le due parti che avrebbero dovuto, con “Le anime morte”, rendere un grande tributo alla “Commedia” dantesca. E racconta un’anima angosciata e soggiogata dall’esteriorizzazione del proprio travagliato subconscio, abbandonata alle forme più elementari della religiosità. Spesso i luoghi comuni giganteggiano più della riflessione, e perfino lo scrittore Sergej Aksakov, che più di altri si dichiarò influenzato da Gogol’ e suo devoto, gli scrisse una lettera di delusione condannando “l’orgoglio satanico mascherato da umiltà” che emergeva già nella “Corrispondenza”. “Ciarlatano o martire?”, gli chiederà.
Negli ultimi anni della sua vita Gogol’ pellegrinò in Terra Santa, ne tornò ossessionato e sotto l’influenza dell’asceta Kostantìnovskij rafforzò l’odio per se stesso e l’assurda convinzione che la sua opera fosse peccaminosa. Si rovinò la salute a causa delle pratiche ascetiche cui si sottoponeva con rigore autopunitivo e non riuscì, nonostante i tentativi, a scrivere la seconda parte del suo romanzo più bello e importante. Quel poco che scrisse, lo distrusse. Strazianti, in questo libro, le pagine sulla necessità di “battere tutte le passioni”, da anima moribonda. E straziante la citazione di un “Racconto d’addio”, che mai fu scritto.