la recensione
"Cose che non si raccontano". Un libro che obbedisce a un solo ordine: non mentire
Antonella Lattanzi si mette alle spalle di sé stessa e scrive del desiderio che dissangua: una storia di maternità e dolore da togliere il fiato, ma anche di voglia di vita, smania e ambizioni
Ho imparato molto presto a non dire quello che penso. Per imperativi buoni e per imperativi cattivi: non far preoccupare gli altri, non ti lamentare, non essere stronza, non permettere a nessuno di farsi gli affari tuoi. Non farti scocciare, non farti giudicare.
“Perché siete tutti così sinceri con me? Cosa vi ho fatto di male io? Chi vi ha chiesto niente? Queste non sono cose che si dicono in faccia. Queste sono cose che vanno dette alle spalle. Sono sempre state dette alle spalle”, dice Massimo Troisi, e tutti ridono perché ha ragione. Alle spalle dite pure quello che vi pare. Alle spalle va bene tutto, nella vita. Nei libri, però, è diverso. Nei libri, perché siano belli, bisogna dire le cose che non si raccontano.
Uno scrittore, una scrittrice, scrive un libro anche per parlare alle spalle di sé stesso. Quello che non vuoi raccontare a nessuno, rivelare a nessuno, il groviglio dei pensieri deprecabili, l’egoismo e la sfortuna, la rabbia dietro il sorriso allegro. La lotta contro sé stessa. Quello che non hai il coraggio di pronunciare: tu adesso lo scrivi.
Antonella Lattanzi l’ha fatto. In Cose che non si raccontano (Einaudi) si è messa di spalle a sé stessa e ha scritto la verità di una storia di sangue e di desiderio. Non voleva raccontare queste cose a nessuno, allora le ha scritte. Non voleva raccontarle perché se le racconti esistono, se le pronunci le hai fatte, sei inchiodata lì, le persone ti guardano e magari dicono: poverina. Oppure: beh, però, io l’avevo detto. Beh, però, non si fa così. Non potevi dirci qualcosa di più semplice, la storia del tuo cagnolino? Non le punture nella pancia, non quell’ambizione feroce.
“Non credevo di essere una persona che non racconta niente di sé. Non ho mai creduto di esserlo. Adesso so che lo sono. Che ho una diga nella testa dove stanno nascoste le cose che fanno davvero troppo male. Quelle cose, io non voglio dirle a nessuno. Io non voglio pensarle, quelle cose. Io voglio che non siano mai esistite. E se non le dico non esistono”.
Nel suo precedente romanzo, Questo giorno che incombe (HarperCollins), Antonella Lattanzi ha dato alla protagonista, madre di due figlie piccole, una testa piena di pensieri indicibili, l’ha fatta impazzire, l’ha fatta parlare con le pareti di una casa minacciosa, le ha premuto le contraddizioni di madre e moglie fintamente felice nella solitudine di una vita così reale da essere facile preda dei fantasmi. E ancora, in Una storia nera (Mondadori), ha costruito un mondo di bugie, di cose dolcissime e di cose cattivissime, nella testa e nelle parole di una donna che vuole salvare non soltanto sé stessa: una donna che forse è una vittima, o forse invece non lo è affatto. Antonella Lattanzi ha sempre cercato, nei suoi romanzi, l’ambiguità. Come Stephen King, come George Simenon, come Shirley Jackson: si infila nelle crepe e nelle zone d’ombra, sfida il buio nelle case illuminate, cerca un punto di terrore e di batticuore.
E adesso, dopo essersi allenata con passione, con ossessione, Antonella Lattanzi spicca il salto nel disvelamento di sé attraverso una storia che le contiene tutte e che però nasce dalla sua vita. E in cui non rinuncia nemmeno per un attimo all’ambiguità.
La cosa più importante dal punto di vista letterario (in una storia di cui è impossibile parlare solo dal punto di vista letterario) è che Antonella Lattanzi esercita questa ambiguità contro sé stessa e dentro il massimo della verità. Si mette alle spalle, appunto, e dice: sei un’egoista, non te lo meriti di diventare madre, non te le sei meritate queste figlie. Dice anche: è terribile quello che mi sta succedendo, ma il libro sarà bello?
La storia è semplice: una donna che vuole essere una scrittrice importante, vuole scrivere bei libri e anche avere successo, vuole vivere una bella vita, viaggiare, amare, ballare (non te lo meriti, allora!), tra tutte le cose coraggiose che ha fatto non ha ancora avuto il coraggio di fare un figlio. Il coraggio del proprio desiderio, il coraggio dell’amore con il suo compagno, Andrea. Il coraggio di rinunciare a qualcos’altro, magari. Il desiderio di un figlio lei l’ha sempre avuto, anzi di tanti figli, si è anche immaginata la faccia felicissima dei suoi genitori alla notizia: sono incinta, ma poi non era il momento, non era quello il desiderio che non lasciava più scampo, era presto, i soldi, la libertà, i libri da scrivere, il cervello che già scoppia di adrenalina. È andata avanti verso la sua vita, senza quei figli.
“Non ci pensavo perché era una cosa troppo grande per pensarci, perché non volevo essere il frutto, nel presente, di tutto il male che avevo avuto o dato nel passato. Non ci pensavo perché non voglio dargli un nome, a questi bambini che non ho mai avuto. Perché non voglio pensare a quanti anni avrebbero adesso, e adesso. Perché non voglio un posto in cui andare a ricordarli. Non ci pensavo perché quando altre persone – amici, conoscenti, colleghe – mi rivelavano un loro aborto, io quella storia mia, solo mia, ce l’avevo sulle labbra. Avrei voluto dire: io so. Io capisco. Io ho deciso di abortire. Non una volta, due”.
Questo è solo l’inizio di un racconto che corre avanti e indietro nel tempo e si costruisce però nel sangue: con un’emorragia contro cui tutto il Tranex possibile, molto più del massimo consentito, non ferma i fiotti negli assorbenti. Un’emorragia da morire dissanguati, in cima alla montagna del Circeo, dove il telefono non prende, dove Stephen King troverebbe altri spunti, dove le bugie non si fermano e nemmeno i desideri: lei, la donna di quarant’anni che non sta riuscendo ad avere un figlio, che è stremata dagli ospedali, dai medici, dalle infermiere, dai preti, da tutte le cose che non possono andare sempre storte e invece vanno anche peggio, vuole stare al mare. Vuole negare il sangue. Non vuole tornare in ospedale. Non vuole morire dissanguata, ma non vuole nemmeno dire ad Andrea: andiamo via da qui. Vuole restare, sfidare, nascondere. Nascondere il sangue che allaga tutto, nascondere il dolore che allaga tutto. Superarlo, negandolo.
Ho scritto: dolore, perché certo che c’è dolore in questa storia di maternità che non va mai come dovrebbe andare. Che non fa riprendere fiato, e a volte chi legge si deve fermare, anche se non vorrebbe mai fermarsi, per assorbire il colpo.
Però è importante dire che questo romanzo è soprattutto una storia di desiderio femminile. Di smania. Di voglia di vita nella sua interezza, e quindi non soltanto di maternità. Una storia di adrenalina, di speranza, di ambizione. E di ambiguità. Non c’è solo lo strazio per il corpo e per il sangue, lo strazio per l’accanimento, lo strazio per l’ecografia di quel giorno, e di quell’altro giorno ancora.
Ci sono le passeggiate che non si dovrebbero fare, l’amicizia che salva, le sigarette che non si dovrebbero fumare. Il desiderio di un’ascia per spaccare tutto. C’è poi la volontà di non sfasciare niente e di non mandare affanculo nessuno (almeno a parole). C’è l’arrabbiatura con il compagno che ha troppo sonno per alzarsi dal letto e accompagnarti a fare quello che devi fare. C’è lui che è stanco e tu che sei sola. Ma c’è anche l’immensa dolcezza di un pensiero indicibile.
Le cose che non si raccontano sono tutto quello che sta intorno alle cose illuminate: anche la compagna di stanza macedone, in ospedale, che sta partorendo forse il duecentesimo figlio e tu stai indossando per andartene i tuoi abiti costosi che hai desiderato e comprato con i tuoi soldi guadagnati, lei te li vede addosso per la prima volta, ti guarda e ti dice: sembri una zingara. “Quando mi hanno dimessa e mi trascinavo lenta per i corridoi dell’ospedale, per uscire, ripetevo: ‘Ma guarda ’sta stronza che mi ha detto che ’sti vestiti sono da zingara, con tutto quello che li ho pagati”. E Andrea si guardava intorno e diceva: “Abbassa la voce, dai, non sta bene dire così”.
Non sta bene, non si dice, non si racconta. Non si racconta che nel massimo del dolore stai ancora pensando ai vestiti, ma soprattutto al tuo libro, e pensi: andrà bene? Sarà bello? Non si dice che nel massimo della verità stai raccontando duemila bugie. Ai medici, anche. Aborti precedenti? Nessuno. Operazioni? Nessuna. Sigarette? Nessuna. Allegria? Tantissima. Duemila bugie, ma non in questo libro che ti prende alla gola. Duemila bugie, ma qui tutta la verità.
Antonella Lattanzi ordina a sé stessa, mentre scrive: non mentire. E lo scrive. Perché sa di averne la tentazione. La scrittrice ordina a sé stessa di scrivere il vero riguardo a sé stessa. Anche le cose frivole, anche le contraddizioni. Tutta la furia e la complessità del desiderare.
Questa donna ha la necessità e la spinta di agire sempre, e di nascondere sempre.
Chi legge allora pensa: e io? Quanto sto mentendo, io? Quanto sono sola, io? È una scossa al cuore e al cervello: non basta desiderare, e anzi grazie mondo di ricordarcelo ogni minuto, ma non si può fare altro che desiderare. Soprattutto: perché dovrei contenere i miei desideri, rimpicciolirli, renderli più sensati, essere più saggia, farmi commiserare e non spaccare niente?
“Queste sono cose che non si raccontano” è una frase di Simenon. “Cose assai semplici, che occorre aver vissuto in prima persona”. Anche “Memorie intime” è di Simenon, è il titolo della sua autobiografia, nata per commemorare la morte della figlia, per combattere il rimorso, per chiedere scusa. Ma Simenon non si è messo di spalle a sé stesso per scriverla, si è messo ben di fronte: si è preso tutta la luce, il dolore e anche il trionfo.
Antonella Lattanzi ha fatto una cosa molto diversa: ha preso la storia di questa donna, quindi la sua storia, e ha iniziato un corpo a corpo letterario tra il sangue e il desiderio, tra la verità e le bugie. Tra il nascondere e lo svelare.
Ha guardato quella donna e il suo sangue e ne ha scritto di spalle, per andarle incontro davvero.
Ha guardato quell’uomo accanto a lei, accanto a sé, e gli ha detto: non riguarda te. Qui è tutto mio, qui sono tutta io.
Una donna che desidera, ride, finge allegria, una donna che scrive e anzi non smette mai di scrivere (“Scusami, romanzo, per averti dato la responsabilità di salvare la mia vita”). Queste sono le memorie intime che non si raccontano.
“Posso convivere con questo dolore che è il passato e questo dolore che è il presente, posso provare a fingere di ridere e a ridere di cuore, anche, certe volte, oppure mi posso ammazzare”.
Oppure puoi scrivere tutta la verità alle tue spalle, e ricominciare a desiderare.