Memorie
Cent'anni di Cristina Campo, vestale discreta della letteratura
Una poetessa fuori dagli schemi, nell'animo e nelle idee: ha scandalizzato e irritato il suo tempo, pur rimanendo sempre estranea alla società culturale. Ragioni per rileggerla: insegna a chiamare le cose con il loro nome
“Con lieve cuore, con lievi mani, la vita prendere, la vita lasciare”, è la meraviglia di Cristina Campo, pseudonimo (il preferito fra i molti che usò) di Vittoria Guerrini. Una delle voci più alte del novecento, si dice oggi di lei. Tessitrice d’inesprimibile, secondo Guido Ceronetti. “Ti insegnerò, mia anima, / questo passo d’addio”. Bolognese, classe 1923, uno sguardo lungo e ipnotico. “Ora tutta la vita è nel mio sguardo”. E’ morta nel 1977, aveva 53 anni. Ad aprile ricorre il centenario della sua nascita. “E’ tutta la lunga scala / è da ricominciare”. Vestale della letteratura, in punta di piedi. “Devota come un ramo / curvato da molte nevi / allegra come falò / per colline d’oblio”. Una persona che spaziava negli interessi e nella conoscenza, che poteva apparire perfino contraddittoria nelle passioni. “Luce tra due piogge”. Poetessa, scrittrice e traduttrice, soprattutto di autori in lingua inglese. Stava dietro al testo, dietro al colore e al suono della parola, alla quale dedicava una costante e totale attenzione. Si prendeva una cura certosina dei testi altrui, traducendo, spiegando suggerendo, illuminando. “Muta, affilavo il cuore / al taglio di impensabili aquiloni”. Il suo primo libro di poesie, “Passo d’addio”, è del 1956, per l’editore Scheiwiller. “Quante volte / raccoglieremo la nostra vita / nella pietà di un verso”.
Due anni dopo, conosce una figura centrale nella sua vita, il cosmopolita filosofo e storico delle religioni Elémire Zolla, colui che sapeva dubitando, che conosceva perché verificava. Fu marito della poetessa Maria Luisa Spaziani. Con lui la Campo visse a lungo, circa vent’anni, contro tutto e tutti, condividendo ciò che entrambi avevano scoperto della vita; c’era lui al suo fianco quando lei morì per una crisi da scompenso cardiaco. “Amore, oggi il tuo nome / al mio labbro è sfuggito / come al piede l’ultimo gradino”. Del 1962 è la sua prima raccolta di saggi. Si dedicò, con la passione e l’attenzione che la distinguevano, a Simone Weil, che introdusse in Italia, e a Hugo von Hoffmansthal, poeta e librettista. Proiettata verso “l’ardua e meravigliosa perfezione” – una delle parole che la ossessionava come poche, diceva – e appassionata di fiabe; perché ci vede dentro una sorta di sapienza evangelica, “nelle fiabe la meta cammina al fianco del viaggiatore”, come l’arcangelo Raffaele e il figlio di Tobia, scriveva.
Tutte le opere della Campo sono curate da Margherita Pieracci Harwell, colei che la Campo chiama “Mita”, e sono pubblicate da Adelphi, cui si deve, a partire dagli anni ottanta, la riscoperta di questa luminosa autrice. “Un attimo suscitato dal soffio divino”. In vita si parlò molto poco di lei, “so bene che ho contro tutto il costume italiano in blocco”, fuori dagli schemi nell’animo e nelle idee; pare che il sistema di divieti instaurato nel 1968 proibisse qualunque menzione della reazionaria Campo. Solo Roberto Calasso, sul Corriere della Sera, ebbe l’ardire di scriverne un necrologio: “Ha lasciato una traccia di poche pagine imperdonabilmente perfette, del tutto estranee a una società letteraria che non aveva occhi per leggerle. Ma sono pagine che troveranno in futuro i loro lettori – e allora appariranno come una sorpresa davvero sconcertante”. Forte nel carattere, ma precaria più di altri in questo mondo, “oscillante tra il fuoco degli uliveti”, perché malata al cuore, l’artiglio sinistro, così lo chiamava. “Incatenata di corvi e tramontane / come una rupe nel mare”. Affilata nelle linee e nel carattere, educata in casa per via dei problemi di salute, si è molto educata da sé, attraverso “le basi semplici e solide delle mie letture”, e l’ascolto della musica classica che “sa tutto e dice tutto”, “dove sole era l’ombra ed ombra il sole, / tra gli affanni sopiti”.
La Campo seleziona con rigore i vivi da frequentare; “nel terrore / dei lillà, in una vampa di tortore”, preferisce dialogare coi morti attraverso la letteratura che è la realtà tangibile della sua vita, e occuparsi di quelli che chiamava “i senza lingua”, i poveri, gli ultimi, “in fondo ad ogni vento”. Non frequentava salotti, li creava, “sogno un salotto come quello della Zarina Alessandra”, scegliendo con cura gli ospiti (per citarne alcuni: Roberto Calasso, Alfredo Cattabiani, Guido Ceronetti, Rodolfo Wilcock, Bobi Bazlen e Luciano Foà, questi ultimi due fonderanno la casa Adelphi). Una figura schiva per necessità e inclinazione, e di rara eleganza. La sua è un’eleganza interiore prima ancora che esteriore e la sua eco, passionale e spirituale, si ritrova nella scrittura. “E’ la musica di una grazia interiore; è il tempo, vorrei dire, nel quale si manifesta la compiuta libertà di un destino”.
Era atterrita dalle cose “che durano più delle persone”, e procedeva per sottrazione, amava dire che aveva scritto poco e avrebbe voluto scrivere di meno. “Per anni camminai lungo primavere / più scure del mio sangue”. Quando la salute la costringeva alla reclusione forzata, e la forza d’animo vacillava, “il primo grido / del silenzio, il lunghissimo ricadere”, temeva di andarsene “tutta in fogli”, ma la scrittura rimane per lei una forma di preghiera, “una professione di incredulità”, alla quale si affida e nella quale confida, una viva preghiera per i vivi, lei che non pregava mai per i morti, “io prego i morti. L’infinita sapienza e clemenza dei loro volti”.
Intratteneva relazioni epistolari con amici e note figure letterarie, e questi scambi avevano l’aria di essere sodalizi umani e spirituali. “Ti cercherò per questa terra che trema / lungo i ponti che appena ci sorreggono”. Le lettere – che ci mostrano il mondo del suo pensiero – erano per lei la certezza dell’esistenza di coloro che amava e stimava, “al centro del roveto riavvampano i vivi / nel riso, nello splendore, come tu li ricordi / come tu ancora li implori”. Fra i tanti carteggi, c’è quello – durato sette anni, dal 1963 al 1970 – con la poetessa Alejandra Pizarnik, conosciuta a Parigi. Avevano in comune l’insonnia, “il digiuno degli occhi”. La poetessa argentina dedicò alla Campo la poesia “Anelli di cenere”. Una corrispondenza che si fa esplorazione di anime tese verso l’assoluto, una – quella della Campo – aspira all’eterno, e l’altra punta l’abisso. La Pizarnik considera la Campo una sorta di interlocutrice interiore, diceva delle sue lettere che le facevano paura come se le avesse scritte un angelo. “C’è nell’attesa / un mormorio di lillà che si rompe”, le scriveva la Pizarnik, e la Campo, come “talismani”, le offriva parole, “non posso che raccomandarLe, ancora una volta di amare se stessa seriamente, di proteggersi senza tregua… Non abbia paura: il volto del nostro spavento non è mai quello che si teme, né si trova laddove lo si sospetta: è una delle terribili civetterie della vita”, scriveva la Campo alla Pizarnik, e mi pare calzi a pennello, come memento, anche per ognuno di noi. “La neve era sospesa tra la notte e le strade / come il destino tra la mano e il fiore”. “Solo la veemente / mia ora lacerava / sul cancello le rose”. Ebbe una vita sentimentale, “la città intricata dei miei amori”, fatta di relazioni tempestose, “nei denti disperati degli amanti”. Aveva un modo personale di vivere e riassumere la spiritualità cristiana, “termine che ci sfuggi e che ci insegui / come ombra d’uccello sul sentiero”, alla quale si avvicinò ad un certo punto della vita e che visse intensamente nell’ultimo periodo della sua esistenza. “Con quanti denti il tuo amore / ci morde!”. La fede era per lei una sorta di scudo contro la perdita della bellezza spirituale dell’animo, “poiché tutti viviamo di stelle spente”.
“La liturgia mi viene sotto la penna, qualunque cosa io scriva”. Scrisse una serie di testi ispirati alla liturgia bizantina, “negli alti covi difesi da un rintocco”, che per lei era poesia in forma di preghiera, il destino dei destini, coi suoi orditi e le sue trame, che fa la nostra esistenza, perché lì, sosteneva, si trova la nostra storia gettata meravigliosamente in grembo a Dio. “Restano pagine come torri”. Nel 1974 curò un testo, pubblicato da Rusconi e ritirato quasi subito per un intervento del Vaticano, sul vescovo Marcel François Lefèbvre, in seguito scomunicato per una serie di azioni considerate scismatiche. “Tra le grandi ali incerte / trapassate dal vento”. L’allora direttore editoriale di Rusconi, Alfredo Cattabiani, disse della Campo: “Era un’estremista, direi quasi che fu Lefèbvre a essere un discepolo di Cristina”. Attraverso le sue parole essenziali e perfette disegna le linee che il destino si diverte a tracciare, “che prossimità spegne / come pioggia di cenere”, e in un certo senso, attraverso la sua scrittura sfida quello stesso destino, dicendo l’incanto e la tragedia dell’esistenza che si compie, “all’accostarsi buio di quel guardiano incorruttibile / che nei giardini chiude le fontane”. Le pagine della Campo non si leggono, si scalano. “Il mento in mano alla tavola nuda / vegliare sola”. Ci si inerpica per le frasi, e in cima il panorama è incantevole, toglie il fiato e lo restituisce in luce. “Ho tante cose da dire! Quasi direi da salvare: tutta la tragica bellezza di ciò che è passato in noi e vicino a noi”.
“La bocca sola / pura / prega ancora / voi”. Ancorata alle radici della sua famiglia, “figlia assai delicata di genitori puri e diritti”, la madre una donna determinata, Emilia Putti, fu sorella di uno dei maggiori ortopedici del suo tempo; la Campo paragonava la madre alle preghiere più belle. Il padre è un musicista del mondo agricolo romagnolo, che, ricorda lei stessa, quando, poco più che bambina, gli chiese di poter leggere i libri della sua biblioteca – “con un gesto, l’escluse quasi tutta: Di tutto questo, nulla, mi disse, poi, indicandomi una scansia separata: Questi sì, puoi leggerli tutti, sono i russi. Troverai molto da soffrire ma nulla che possa farti male”. Sarebbe un auspicabile esercizio di vita ripercorrere le letture amate dalla Campo, avrebbero valore di medicamento, per “concepire nel buio grembo della mente”. La Campo vede tutto attraverso la lente della lettura, “lungo le notti piovose che io m’accendo / nel buio delle pupille”. Pare che “cosa sta leggendo?” fosse la prima domanda che faceva quando incontrava qualcuno a cui teneva. “Sono come un cervo sempre in fuga nella foresta”. Rifugge la mediocrità. “Senza febbre o paura la mia mano / ti disegnava, oscura, una parola”. Rompe gli schemi tenendosi alla larga da banalità e squallore. “Una donna, un atomo di fuoco”. Non accetta compromessi e si isola, si rende “imperdonabile”, nella perfezione. Simpatizza per la destra e ha amici di sinistra. “La vita è un’altra cosa, è serbare un sano senso delle proporzioni”. La si direbbe politicamente scorretta, noi la diciamo larga nelle vedute e nella conoscenza, e incandescente esempio, soprattutto in questo nostro tempo, “sogno e sfacelo / di luci e piogge”, così censurato e de-finito fino allo stremo e all’appiattimento.
“Ritornerò senza dolore”. La scrittura era per lei l’ombra solida che rimane quando la vita se n’è andata, “tra gli orli di una ferita”. Coltiva “la religione della parola, la patria della lingua”. Crede nel rispetto quale dovrebbe essere: reciproco, “se ancora due uomini incontrandosi si inchinano l’uno all’altro, la civiltà è salva”. “Come una verga è fiorita la vecchiezza di queste scale”. Nel 1965, dopo la morte dei genitori, si ritira sull’Aventino, e la scelta fa quasi metafora, “ch’io mi distenda sul quadrante dei giorni, / riconduca la vita a mezzanotte”, e qui resta fino alla fine, “moriremo lontani”, lontana da un “mondo celato al mondo” che le piace sempre meno. “Tutto è già noto, la marea prevista”. Per tutta la vita, la Campo puntò alla sprezzatura, “maestro supremo di sprezzatura è il Cristo, con le sue ineffabili soluzioni che capovolgono l’ordine del mondo”, e pertanto desiderava essere leggera e diretta, trovare una via di grazia e di semplicità per ogni cosa piccola e grande, fino alla naturalezza della morte, “come l’ombra intorno a un frutto”. Una creatura estrema, piena di ardore cavalleresco. Viveva tra i contrari, disse di lei Pietro Citati. “Un essere più affilato della duplice lama che affonda”. Autori come Cristina Campo, che hanno scandalizzato e irritato il loro tempo, “vibrerò senza quasi mirare la mia freccia”, ci insegnano il coraggio di nominare le cose con il loro nome, senza mezzucci formali, oscurantismi e buonismi dell’ultima ora, “sapere con precisione il nome delle cose, cioè possedere ancora una realtà”, e ci consentono una lettura del mondo, “lungo l’intera via che porta a questo mondo”, attraverso il confronto e l’esperienza che non dovrebbe tradursi in ottusa cancellazione di qualcosa, ma essere presa di coscienza di tutte le cose, “per far della tenebra rose”.
Perché Leonardo passa a Brera