Parigi in un giorno di pioggia, di Gustave Calliebotte (Wikipedia)

Questioni di eleganza

Il provinciale Balzac, che da parigino ordinò trentuno panciotti in un mese

Mariarosa Mancuso

L'autore della Commedia umana capì subito che per ben figurare in società doveva rimpannucciarsi. Ma fece tanta fatica per nulla: ai modaioli non piaceva lo stesso

Nasce Honoré Balzac a Tours, nel 1799. Arriva a Parigi con i vestiti di gusto provinciale, ma fino a quando lavora come scrivano in uno studio notarile non ci bada granché. Quando a vent’anni decide di fare lo scrittore – prima di teatro (andò malissimo) e poi di romanzi (sappiamo com’è finita, con la monumentale “Commedia umana”) – comincia a osservare la gente che passeggia per i boulevard. Capisce subito che per ben figurare in società deve rimpannucciarsi. Anche il “de” aristocratico nel nome va considerato un ritocco – e i nemici sono pronti a sfotterlo. Vediamo una scena simile nel film “Le illusioni perdute” di Xavier Giannoli, che ha colto perfettamente lo spirito del romanzo – a anche la compravendita delle recensioni, librarie e teatrali (in aggiunta, c’era una claque professionale a pagamento). La particella nobiliare non fu per nulla costosa, rispetto al conto del sarto Buisson di rue Richelieu: 900 franchi, più 200 che erano serviti per pagare il calzolaio. Più o meno quel che al giovane Honoré sarebbe bastato per vivere un paio d’anni a Parigi, sperperato in eleganza. La lista degli abiti nuovi comprende una redingote color noce, un panciotto nero, un paio di pantaloni grigio acciaio. E siamo solo al primo mese. Il mese successivo arrivano un paio di calzoni neri, in tessuto cashmere, e due panciotti trapuntati. Poi il delirio: trentuno panciotti ordinati in un solo mese, prima tappa di un più ampio progetto. Un panciotto diverso per ogni giorno dell’anno. Un guardaroba elegante è indispensabile per un giovane provinciale che voglia farsi strada nella società parigina. Ma qui andiamo verso il dandismo.

 

Tanta fatica per quasi nulla. La baronessa di Pommereul considerava Balzac terribilmente malvestito, era grasso e gli abiti non riuscivano a nasconderlo. Delacroix criticava il gusto per i colori. Girava vestito in maniera discutibile, ma non sbagliava un colpo quando doveva vestire i suoi duemila personaggi. Lucien de Rubempré – nato Lucien Chardon, un altro che il “de” lo rubacchia, adottando il nome della madre – oppure la cugina Betta, parente povera avvolta un uno scialle giallo invidia. “Il suo aspetto non somigliava per nulla alla forma e all’eleganza delle sue frasi”, nota un altro osservatore modaiolo dei suoi tempi. E c’era dell’altro. Metteva spille sulle camicie ingiallite, e anelli con diamanti sulle dita sporche. Qui siamo più avanti negli anni, quando aveva denaro, magari preso a prestito oppure ottenuto come anticipo per un romanzo (gli investimenti, tra cui una miniera in Sardegna, non fruttarono mai granché). Per entrare a casa di Balzac servivano almeno un paio di parole d’ordine, guai se qualche creditore fosse riuscito a penetrare per esigere il dovuto. In caso di bisogno, si impegnava per un altro romanzo da pubblicare a puntate. Scriveva con addosso una vecchia vestaglia, aiutandosi con quantità di caffè che oggi manderebbe chiunque all’ospedale. Ma per rispettare le scadenze, il caffè era la sua droga. Se usciva di casa aveva sempre con un bastone, anche questo decorato con pietre luccicanti.

 

I pettegolezzi – pensate a uno scrittore contemporaneo che non sia Tom Wolfe o Gay Talese: l’interesse per il guardaroba e la pulizia personale sarebbero fuori luogo – vengono da un saggio di Valerie Steele. Titolo: “Paris Fashion. A Cultural History”. Sembra di stare a guardare i gentiluomini che passeggiano sul Boulevard des Italiens. Le dame tramano da casa, e più sono modestamente vestite più sono pericolose. Le attrici come Coralie si annunciano con un paio di calze rosse, richiamo e avvertimento per i cuori deboli.

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