Spazio e arte
L'eccezione de Chirico in una pittura moderna priva di senso architettonico
L'ossessione per la decadenza, l'amore per gli autori antichi e per la classicità. Mentre gli altri artisti del '900 inventano nuovi stili, lui ritrae l'ambiente inquieto e dinamico in cui tutti si muovono. In libreria gli “Scritti 1910-1978”
Nella modestia delle mie competenze pittoriche e nei limiti delle mie opinioni personali sull’arte del Novecento, ho spesso pensato a Giorgio de Chirico come al più importante dei pittori moderni. Uso un termine deplorevolmente banale e retorico come “importante” per dire invece qualcosa di non comunemente riconosciuto: il fatto che de Chirico ha avuto fin dall’inizio un vantaggio sugli altri pittori novecenteschi, quello di aver inventato e dipinto il mondo, l’ambiente, il paesaggio nel quale gli altri pittori abitavano ma che non dipingevano, dato che dipingevano altro. Quello che de Chirico ammirava di più e sentiva perduto nella pittura moderna è “il senso architettonico” della pittura antica: “La costruzione accompagnante la figura umana, sola o di gruppo, l’episodio di vita e il dramma storico, fu una grande preoccupazione per gli antichi che vi si applicarono con spirito amoroso e severo studiando e perfezionando le leggi della prospettiva” (in Giorgio de Chirico, Scritti 1910-1978, a cura di Andrea Cortellessa, Sabina D’Angelosante, Paolo Picozza, La Nave di Teseo, 243 pp., 45 euro).
Queste le prime righe di un testo uscito sulla rivista “Valori plastici” nel maggio-giugno 1920. Quelle di de Chirico sono qui le “riflessioni sulla pittura antica”, della quale lui non saprebbe fare a meno e che fondano l’idea di una novecentesca pittura “metafisica”, nella quale la fermezza strutturale della rappresentazione permette di evitare la generale decadenza dell’arte pittorica. Tale decadenza diventa e sarà anche in seguito per de Chirico un tema ossessivamente ricorrente. Ciò che infatti doveva essere salvato nella pittura è secondo de Chirico “l’architettura in un quadro”, il senso dello spazio ambientale e degli equilibri necessari che le figure assumono al suo interno. Si tratta ed è in gioco l’“intelligenza” della pittura, o più precisamente l’“espressione metafisica della composizione” che si trovava “negli antichi italiani” da Giotto a Raffaello, e nella pittura francese di Nicola Poussin e Claude Lorrain, che “usarono l’architettura col paesaggio e le figure”. Senza la strutturazione di uno spazio architettonico, il luogo, il giusto posto che le figure occupano perde senso e necessità, arrendendosi all’arbitrio. Si tratta di visione d’insieme: “Claude Lorrain spesso intensificava l’aspetto poetico e prospettico dei suoi porti con un effetto di sole al tramonto; per questo alcune sue pitture si approssimano all’opera migliore di Rembrandt. Il sole, basso all’orizzonte, manda i suoi raggi, come tante rette luminose (…) facendo così l’effetto di certi disegni prospettici in cui si vedono diverse rette, partenti dai lati d’un oggetto, congiungersi sulla linea dell’orizzonte al centro, o punto di veduta (…) così che le figure del primo piano sono d’una durezza e d’una solidità quasi scultorie” (p. 308). De Chirico difende la classicità e in particolare quella italiana, per “quello spirito casto, asciutto e di prim’ordine, che della grande pittura nostra, dai primitivi a Raffaello, è il maggior vanto”. E questo è detto per introdurre un breve discorso del 1922 in lode di Giorgio Morandi, che con il suo occhio vede la realtà delle cose “nell’aspetto suo eterno”. Quella di Morandi è per de Chirico una visione da artista greco antico, che con la sua “metafisica degli oggetti più comuni” (bicchieri e bottiglie sopra un tavolo) divinizza ciò che guarda.
Certo che, in quanto “monomaco”, o polemista monomaniacale, de Chirico arriva a disprezzare il Seicento partendo dal sommo Caravaggio di un dipinto come la Morte della Madonna al Louvre, al quale attribuisce “l’origine di certo ottuso accademismo nostrano”. E ancora più scandaloso è che de Chirico trovi el Greco superiore a Caravaggio per “potenza dell’apparizione” e per “emozione”. Torno perciò al semplice azzardo che mi ha spinto a dire che forse de Chirico nel Novecento ha un primato di “importanza” rispetto a Braque, Kandinskij, Boccioni, Klee, Mondrian e lo stesso inarrestabile Picasso. Mentre gli altri inventano stili pittorici, de Chirico dipinge la loro situazione, il loro habitat e ambiente, il loro spazio straniato, la loro situazione metafisica e extrastorica, la loro inquieta evasività, o il loro dinamismo velleitario. Di fronte alla povertà pittorica di presunti capolavori moderni come Demoiselles d’Avignon e Guernica di Picasso, il de Chirico delle Muse inquietanti e del Canto d’amore inventa un mondo, il mondo stesso nel quale gli altri pittori abitano e da cui non potevano sperare di uscire, dato che non ne vedevano “architettonicamente” misure e confini.