Una storia letteraria
Da Caporetto all'Ucraina, l'epopea maledetta della trincea
Con i soldati sprofondati in labirinti fangosi, il futuro del conflitto sembra più antico del passato: lo hanno raccontato grandi narratori della guerra di posizione, da Svevo a Kafka, da Tolkien a Gadda
Il guaio non è solo che non si sa come va a finire. E’ che non la si vede arrivare. Tra i molti, moltissimi che non se n’erano quasi accorti c’è per esempio Franz Kafka. E c’è Aron Hector Schmitz, più noto come Italo Svevo. “La Germania ha dichiarato guerra alla Russia – Nel pomeriggio corso di nuoto”, annota Kafka nel suo diario il 2 agosto 1914. Più di un anno dopo se ne accorge anche Zeno, il protagonista del capolavoro di Svevo: “La guerra m’ha raggiunto. Io che stavo a sentire le storie di guerra come se si fosse trattato di una guerra d’altri tempi, di cui era divertente parlare, ma sarebbe stato sciocco preoccuparsi, ecco che vi capitai in mezzo stupefatto e nello stesso tempo stupito di non essermi accorto prima che dovevo esservi prima o poi coinvolto. Io avevo vissuto in piena calma in un fabbricato di cui il pianoterra bruciava e non avevo previsto che prima o poi tutto il fabbricato con me si sarebbe sprofondato nelle fiamme”.
“La guerra m’ha raggiunto. Vi capitai in mezzo stupefatto e nello stesso tempo stupito di non essermi accorto prima”, scrive Zeno Cosini.
Siamo verso la fine de La Coscienza di Zeno. Il protagonista racconta il suo incontro improvviso, “un poco buffo” con la guerra. Era andato a passare la Pentecoste con la famiglia a Lucinico, in campagna dalle parti di Gorizia. E’ la vigilia del 24 maggio. La figlia gli chiede di procurarle delle rose. Lui si presta volentieri a una passeggiatina di un paio d’ore. “Col padre di Teresina m’accordai facilmente per le rose. Mi permetteva di tagliarne quante volevo eppoi non si avrebbe litigato per il prezzo [Poi…] a voce molto bassa mi domandò: ‘Lei non ha sentito niente? Dicono sia scoppiata la guerra’. ‘Già! Lo sappiamo tutti! Da un anno circa’, risposi io. ‘Non parlo di quella – disse lui spazientito. – Parlo di quella con…’ e fece un gesto dalla parte della vicina frontiera italiana”. Zeno, con la sufficienza di chi la sa più lunga del contadino, lo rassicura che la guerra non ci sarà, gli spiega che “a Roma hanno ribaltato il ministero che voleva la guerra e ci hanno ora il Giolitti”; che, se anche la guerra fosse scoppiata “oramai in Europa non mancavano dei campi di battaglia per chi ne voleva”. Si dirige verso un’agognata tazza di caffelatte che lo attende a casa. Non ci arriverà. Si imbatte in un plotone di soldati austriaci che si stanno dirigendo verso il fronte, ha un diverbio con l’ufficiale che minaccia di fargli “tirare addosso”. E dire che si era sentito sollevato che “egli parlava correntemente il tedesco”, e non, mettiamo, un’altra della cinquantina di lingue in cui erano stati diramati gli ordini di mobilitazione dell’Impero austro-ungarico.
Svevo e Kafka sono lenti a rendersi conto di quel che sta succedendo. Forse anche noi. Alzi la mano chi non ha, non dico irriso, ma non ha avuto un sorriso di sufficienza su Papa Francesco che continua a dire che siamo già in una guerra mondiale perché “le grandi potenze sono tutte già coinvolte”, sono in ballo “interessi imperiali, non solo dell’impero russo, ma anche di altre parti”. Che una delle parti sia democratica non aiuta particolarmente. Due cose sono sempre molto difficili per le democrazie: iniziare una guerra, e finirla, avvertiva Tocqueville.
In Ucraina c’era già una guerra di posizione nel Donbas dal 2014. Il sistema di trincee è già più esteso di quello della Grande guerra. Il “Diario segreto” di un soldato ucraino pubblicato dall’Economist pare la sceneggiatura per un altro “Niente di nuovo sul fronte occidentale”
Da guerra di movimento, d’assalto, quale era iniziata (almeno nell’immaginazione di Putin e dei suoi generali, che pensavano di prendere Kyiv nel giro di 48 ore) si è evidentemente trasformata in guerra di posizione, di trincea. Si sono attestati su una sponda e sull’altra del Dnipro come le armate contrapposte si erano attestate su una sponda e quella opposta della Somme o della Marne. In Ucraina c’era già una guerra di trincea nel Donbas. Iniziata nel 2014, dura da quasi dieci anni, più di quanto sia durata l’intera Prima guerra mondiale. Ora le trincee si sono estese a dismisura. Il sistema è già più esteso di tutte quelle della Grande guerra. Avanzano per pochi chilometri e poi si ritirano, le stesse località vengono perse, riconquistate, riperse a prezzo di un’immane quantità di munizioni e vite umane. Esattamente come avvenne un secolo fa sul Fronte occidentale quando fu fermato lo strepitoso sfondamento iniziale tedesco realizzato grazie all’invasione del Belgio neutrale. I comandi tedeschi credevano di puntare dritti su Parigi, come avevano fatto i prussiani nel 1870. Invece si impantanarono nelle trincee. Esattamente come sul fronte italiano, dove, persa l’inerzia della prima offensiva con cui Cadorna pensava di poter prendere Trieste e dilagare in Istria, le armate contrapposte si trincerarono sul Carso, per poi dissanguarsi per anni in continue offensive e controffensive.
Il guaio delle guerre di posizione è che possono durare molto a lungo. Le due guerre mondiali erano entrambe iniziate col culto dell’offensiva, della spallata risolutrice, del Blitzkrieg. Si conclusero invece sulla durata. L’argomento è molto presente nei Quaderni di Gramsci che in carcere riflette sul grande disastro sopravvenuto per la sua parte politica. Legge e si informa sugli aspetti militari, usa gli argomenti dei generali Giulio Douhet e Leonardo Gatto Roissard contro Cadorna, il responsabile della disfatta a Caporetto. Soprattutto ne fa una metafora per la politica, per sostenere l’impossibilità di un assalto al Palazzo d’Inverno in Occidente, la necessità assoluta di un lungo confronto democratico. Confronto, compromesso, negoziato, convivenza, politica. L’alternativa è il disastro garantito se “le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in modo che la lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca”.
“Se non scavi e non ti infili nella tana, muori in fretta”, dicono ai giornalisti stranieri i soldati ucraini asserragliati a difesa di Bakhmut. Il “Diario segreto” di un soldato ucraino, pubblicato dall’Economist assomiglia in modo impressionante ai diari di trincea della Prima guerra mondiale. Pare la sceneggiatura per un altro remake ancora di Niente di nuovo sul fronte occidentale dal romanzo anni 30 di Erich Maria Remarque. Stesso addestramento dei volontari poi mandati al fronte “come se fossimo una covata di cuccioli”, stessa paura e odio per il nemico, stessi traumi, stessa allegria cameratesca, con tanto di turpiloquio, stessa censura, stesso diffondersi di voci e notizie incontrollate (“Le voci nell’esercito diventano virali in un battibaleno”), stesse interminabili attese di attaccare ed essere attaccati, stessa continua vicinanza con la morte, in tutti i suoi aspetti più macabri. Non fosse che ora ci si parla attraverso il satellite, i missili ti vanno a cercare, e al fischio dei proiettili di obice si è aggiunto il ronzio dei droni. Benvenuti nel futuro. Che però sembra più antico e remoto del passato.
Le guerre si somigliano tutte, come diceva Tolstoj delle famiglie felici. Anzi no, ognuna è diversa, infelice a modo suo. Dipende da come va a finire. Molte nemmeno finiscono. Come la guerra di Corea, che ogni tanto viene evocata come possibile finale di partita per la guerra in Ucraina. Dipende dal punto di vista: di chi la perde, di chi la vince, di chi pensa di averla vinta e invece, magari anni, decenni dopo, si accorge di averla persa. L’unica cosa su cui non ci piove è che la guerra in Ucraina non è come la guerra dei nostri padri. Semmai come quella dei nostri nonni. La guerra in Ucraina comincia ad assomigliare maledettamente alla Grande guerra 1915-18, molto più che a quel sequel, diversamente atroce, che fu la guerra mondiale del 1939-1945.
“Da principio furono i sassi e le sporgenze naturali del terreno, dietro a cui, dopo la breve follia dell’assalto, gli uomini schiacciarono la testa, toccando con la faccia il terreno, saggiando in bocca la terra rossa e premendo, senza dir parola, la ferita nel fianco contro gli spuntoni della roccia. […]. Poi arrivò il sacchetto a terra […]. Le trincee si alzarono e furono più solide. Si tracciarono i camminamenti, prima dritti e senz’arte, da passarci solo la notte, poi defilati e coperti […]. Poi vennero le caverne […]. I comandi in principio erano contrari, perché ritenevano che il soldato vi invilisse”. Così Leo Pollini, uno dei tanti ufficiali-memorialisti (leggo dal libro di Lucio Fabi, Gente di trincea: La grande guerra sul Carso e sull’Isonzo, ricco di testimonianze).
Né Svevo né Kafka hanno fatto la guerra. Non hanno esperienza di trincea. Svevo faceva l’industriale. Aveva superato la cinquantina. Quando gli sequestrarono la fabbrica di vernici che aveva messo su a Trieste, si mise a scrivere. Era figlio di un ebreo tedesco e una italiana triestina, se l’avessero arruolato avrebbe dovuto servire nelle trincee austriache. Sua figlia aveva invece seguito a Firenze il fidanzato “regnicolo, cioè suddito italiano”, arruolatosi nell’esercito italiano. Kafka aveva cercato di arruolarsi volontario. Una prima volta lo riformarono perché troppo fragile di costituzione. Ad un seconda visita lo dichiararono abile, ma i dirigenti dell’Istituto per le assicurazioni in cui lavorava lo dichiararono, suo malgrado, indispensabile allo sforzo di guerra. L’uno e l’altro compresero molto di più di quelli che in guerra c’erano andati, o poterono raccontarla dal vivo.
Dürrenmatt, nella “Guerra invernale nel Tibet”, immagina un’umanità decimata dall’atomica che continua a combattere in un dedalo
In un racconto del 1923-1924, La tana, Kafka dà voce ad un animale che si scava una trincea infinita, un labirinto immenso. La trincea diviene condizione umana, anzi animalesca. Solo un altro scrittore, lo svizzero Friedrich Dürrenmatt, nell’assai più tardo La guerra invernale nel Tibet aveva immaginato un’umanità decimata dalla guerra nucleare che continua a combattersi in un dedalo infinito di gallerie scavate nel ventre delle montagne del Tibet. Dario Malini nel suo La Grande Guerra di Italo Svevo (ArteGrandeGuerra, 2018) demolisce l’impressione che la guerra non abbia toccato lo scrittore triestino. Lo tocca tanto che Svevo si cimenta con la profezia. Proprio alla fine della Coscienza di Zeno immagina un’umanità che distrugge la natura, una bomba di potenza mostruosa, pandemie devastanti. “L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie e ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. […] Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole […]. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati […]. Un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quasi innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.
Proust ha in comune con Kafka e Svevo il non essere andato in guerra e in trincea. La pubblicazione della sua Recherche fu interrotta dallo scoppio del conflitto. Tratta di tutt’altro, ma la guerra è presente, si affaccia dall’inizio alla fine. Anche lui è profeta. Non voleva fare il soldato. Riuscì a farsi riformare. Per questo si sentiva in colpa. “In questi giorni tremendi ho altro da fare che scrivere lettere e occuparmi dei miei poveri affari che, ti giuro, mi sembrano irrilevanti quando penso che milioni di uomini stanno per essere massacrati in una Guerra di mondi paragonabile a quella di Wells, perché l’imperatore d’Austria ritiene che gli farebbe comodo uno sbocco sul Mar Nero”. Così scrive all’amico Lionel Hauser il 3 agosto 1914, qualche ora prima che la Germania dichiarasse guerra alla Francia.
Come mi rigiro nella mia biblioteca, in qualsiasi direzione e in qualsiasi lingua, mi ritrovo nella trincee della Grande guerra. Incombe in tutti i grandi romanzi del Novecento. Anche quando sembra che parlino tutt’altro, siano delicate introspezioni, ci raccontino fiabe. Ne parla La signora Dalloway di Virginia Woolf. Tutta, ma proprio tutta la grande letteratura della prima metà del Novecento nasce nelle trincee. La discriminante non è esserci stati o non esserci stati. Guillaume Apollinaire, nato a Roma, in Trastevere, da una nobildonna polacca e uno svizzero, dovette farsi in quattro, mobilitare mari e monti per riuscire a farsi arruolare: era sospetto in quanto “straniero”. Ne Il signore degli anelli in trincea finiscono hobbit, elfi, maghi. I suoi personaggi più cattivi e spietati hanno molte somiglianze con i leader politici della sua epoca.
Molti scrittori compresero l’orrore quanto chi in guerra c’era andato. Kafka fu riformato, ma nel racconto “La tana” la trincea diviene condizione umana
L’“orrore animalesco” della Terra di Mezzo di J.R.R. Tolkien assomiglia tremendamente a quello della “Terra di nessuno”, l’inferno in mezzo alle trincee avverse. “Non ero un buon ufficiale” ammise Tolkien in una lettera indirizzata molto dopo, nel 1944, al figlio. In effetti era distratto: passava un sacco di tempo a lavorare alla sua ricerca sul linguaggio e le storie degli elfi. Lo faceva nelle pause di riposo, in mensa (gli ufficiali, di tutte le parti, hanno sempre mangiato comodi), persino in trincea o dentro i bunker durante i bombardamenti. “La guerra [di Tolkien] ha tutte le qualità della guerra che la mia generazione ha conosciuto: i movimenti senza fine, incomprensibili, la sinistra quiete del fronte quando ‘tutto è pronto’, i civili in fuga, le vivaci, vivide amicizie, un sottofondo che sa al tempo stesso di disperazione e allegria, regali insperati, come una scorta di tabacco recuperata da un rovina”, ricorda il suo compagno di trincea e di romanzi fantasy, C.S. Lewis. “Le prodezze nei vecchi racconti e canzoni: avventure le definivo, caro mio signor Frodo […] stimolanti perché la vita era un tantino noiosa […] ma non è proprio così per i racconti davvero importanti, quelli che non si dimenticano. Sembra che ci si finisca dentro […] c’è da chiedersi in che tipo di racconto siamo andati a finire?” dice un interlocutore del protagonista nel Signore degli anelli.
Tra quelli che in trincea ci sono stati c’è l’ingegner Gadda. Volontario, entusiasta, ansioso di eroismi, come molti altri della sua generazione. Finché nell’undicesima grande offensiva sull’Isonzo, fallita come tutte quelle precedenti, lo presero prigioniero con l’intero suo battaglione. Era Caporetto. Adelphi ha appena pubblicato un’edizione critica, finemente curata e annotata da Paola Italia ed Eleonora Cardinale, del Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda (Adelphi 2023). Comprende i sei taccuini inediti solo recentemente e fortuitamente ritrovati. Conferma la metamorfosi da innamorato a disgustato della guerra. I taccuini all’inizio non li voleva pubblicare. Poi acconsentì a pubblicarli ma autocensurandosi. Eppure era stato proprio lui a vantare, recensendo Guerra del ‘15 di Gianni Stuparich l’autenticità dei diari rispetto al resto del pubblicabile, e persino delle lettere ai cari: “Le lettere di combattente, nobilissime e sacre cose, sono forme in diverso modo viziate (p. e. dalla preoccupazione di tacere il pericolo alla mamma). Meglio il diario, meglio il diario di uno che è senza volerlo artista e scrittore”.
Robert Musil e Ludwig Wittgenstein, anche loro volontari entusiasti, avevano combattuto nelle trincee opposte a quelle italiane. Musil, distaccato in Valsugana, aveva preso parte alla quinta battaglia dell’Isonzo. Ammalatosi di stomatite ulcerosa, era stato ricoverato in diversi ospedali. E quindi, anziché rimandato in trincea, era stato assegnato al comando d’armata a Bolzano, a dirigere il Soldaten-Zeitung. L’autore dell’Uomo senza qualità fece così bene che venne poi nel 1918 richiamato a Vienna, al Quartiere generale della stampa di guerra, a dirigere un nuovo giornale di propaganda patriottica, l’Heimat. Una scelta dei suoi editoriali difficili da trovare in tedesco, sono stati pubblicati in italiano, in prima edizione mondiale, a cura di Massimo Libardi e Fernando Orlandi, da Reverdito, col titolo L’ultimo giornale dell’Imperatore. Sostiene ad esempio che le proposte di giusta pace del presidente americano Wilson “non sono per nulla un discorso di pace ma un discorso di offensiva di pace”. Presenterebbero come loro principi già avanzati dagli Imperi centrali e respinti dall’Intesa. Quindi sarebbero “una delle più grandi mistificazioni della storia mondiale”. In confronto le concioni di Alessandro Orsini sul Fatto quotidiano di Travaglio e gli articoli di Piero Sansonetti sul Riformista, sulle ragioni di Putin, ingiustamente mistificate dagli Americani, sembrano scarabocchi da scolaretti ripetenti.
Sono ricorrenti nelle cronache di allora le analogie a testi letterari frequentati sui banchi di scuola. Spesso si fa ricorso all’Inferno di Dante per raccontare la trincea. Ad Aldo Molinari, inviato speciale al fronte de L’illustrazione italiana, i fanti nella trincee del Monte San Michele, straziati dai reticolati, evocano il terzo cerchio infernale costantemente battuto da “una piova/ etterna, maladetta, fredda e greve”. Il suo reportage suggerisce un conflitto sotterraneo, un labirinto di trincee, addirittura fantastiche città sotterranee sotto pendici carsiche: “E’ una guerra d’assedio, una lotta di approcci: le due schiere opposte s’incontrano, cozzano come gli avari e i prodighi nell’inferno dantesco”. In Terra irredenta, terra incognita: L’ora delle armi al confine orientale d’Italia 1914-1918 di Mario Todero (Laterza 2023). Ma ha il buon gusto di non travestire surrettiziamente Dante con la divisa del Regio esercito.
Dopo Caporetto i comandi supremi istituirono il Servizio P: “Si è chiamato Servizio P. e non Servizio Propaganda prima di tutto perché occorre evitare, quanto più ci si avvicina ai reparti di truppa, di parlare di propaganda e propagandisti”, spiegavano. C’era bisogno di qualcosa di più sottile dei fanatici estetizzanti come D’Annunzio, o Marinetti che aveva glorificato la guerra come “sola igiene del mondo”. Anche i britannici avevano un War Propaganda Bureau. Tra i mobilitati: il padre di Sherlock Holmes, Conan Doyle, G.K. Chesterton, John Galsworthy, Ford Madox Ford, H.G. Wells, Rudyard Kipling e persino il pacifista George Bernard Shaw. Al Dipartimento per l’Informazione, che nel 1917 avrebbe assorbito il Propaganda Bureau, venne preposto John Buchan, il corrispondente del Times in Francia, nonché autore delle avventure di Richard Hannay, il più celebre cacciatore di spie al servizio di Sua Maestà prima di James Bond. Più indipendenti gli Americani, a partire da Hemingway, che definirà “oscene” parole astratte come Gloria, Onore, Coraggio e in una pagina indimenticabile di Addio alle armi racconta un orrore, anche maggiore della trincea, le fucilazioni in massa e indiscriminate di sospetti sbandati, codardi e disertori.
Tutti scrivevano dalle trincee. Una quantità incredibile di diari, note, appunti, lettere. Scrivevano anche gli analfabeti, facendosi aiutare dai compagni che sapevano leggere e scrivere. C’è chi ha calcolato che dalle sole trincee italiane partirono quattro miliardi di lettere e cartoline. Tutte soggette alla censura militare. Le cartoline distribuite ai soldati britannici contenevano poche righe prestampate da cancellare o confermare. Tipo: Sto bene, oppure: sono in ospedale, oppure: segue lettera alla prima occasione, oppure: non ho vostre notizie, con la possibilità di barrare subito dopo: – di recente, oppure – da molto tempo. Mezza cartolina è occupata dall’avvertenza: barrare le frasi non necessarie, non aggiungere niente altro, tranne firma e data, altrimenti la cartolina sarà distrutta. Il resto era propaganda autorizzata. I giornali uscivano regolarmente, con notizie sull’andamento della guerra, aggiornate anche con diverse edizioni al giorno. In trincea era un po’ più difficile. C’è chi si lamenta di ricevere più notizie dalle lettere da casa di quelle vissute al fronte. Ci sono, in tutti gli eserciti, carrettate di giornali destinati alla truppa, compresi quelli ciclostilati in trincea. E poi un mare di voci incontrollate, di leggende, un oceano di illazioni, voci, fake news, bufale, sussurrate, passate di bocca in bocca. Anche questo déjà vu.