a teatro
Il senso del buffo. “Li zite 'ngalera” alla Scala
La regia non esalta l’attualità, che pure ci sarebbe. E non spunta neppure un'idea forte, anzi un'idea tout court. Un'occasione mancata
L’opera Li zite ’ngalera non è un dramma carcerario ma una delle prime opere buffe: gli “zite” sono i fidanzati e la “galera” è la nave a remi (che però in scena, ahi ahi, è un veliero, questi registi…). Correva l’anno 1722, a Napoli, e la deliziosa “commeddeja” di Bernardo Saddumene, nel napoletano dell’epoca poco comprensibile per i napoletani attuali e impossibile per i non autoctoni, ebbe la fortuna di essere rivestita di note da Leonardo Vinci, un genio fin dal nome. Opere serie o buffe che fossero, Vinci scriveva musica apparentemente semplice ma meravigliosa, specie per la sua incantevole facilità melodica. Ha fatto quindi bene la Scala a dare una chance alle Zite che comunque sono una rivelazione soltanto per la critica italiana, visto che in tempi recenti sono state rappresentate e incise più volte.
I problemi della produzione della Scala sono due. Il primo è la Scala stessa, che per questo repertorio è troppo grande: le arie ancora passano, ma i recitativi secchi si perdono nel vuoto. Da quando a Milano si sono accorti, con i soliti due o tre decenni di ritardo, che quella barocca è la vera opera contemporanea, la necessità di una Scala bis da 5-600 posti è ancora più impellente. Il secondo è lo spettacolo. La parte musicale funziona. In buca suona (bene a parte qualche pasticcio delle trombe) una joint venture fra i barocchisti dell’orchestra La Cetra e gli scaligeri su strumenti storici; direzione energica e fantasiosa di Andrea Marcon, attento a mettere in rilievo chitarre battenti, colascione, tiorbe e altre sonorità “ba-rock”, mentre non è una buona idea aggiungere battute parlate fra una sezione e l’altra delle arie con il daccapo, anche perché non si capisce nulla.
Compagnia “lunga” e, con alti e bassi, più i primi dei secondi, anche valida: da citare almeno lo squisito Carlo di Francesca Aspromonte, i due controtenori Raffaele Pe e Filippo Mineccia, bravi “a perfetta vicenda”, il saporito cuoco Rapisto di Marco Filippo Romano e il tenore Alberto Allegrezza, travolgente nella parte en travesti della vecchia Meneca Vernillo. Lo spettacolo di Leo Muscato è molto chic, “da Scala” si sarebbe detto un tempo: entrano ed escono di continuo le deliziose scene pastello di Federica Parolini, trentasei cambi, quasi un record, e i costumi storici di Silvia Aymonino sono incantevoli. Ma, finita la sfilata primavera-estate 1722, non c’è molto altro.
La regia propriamente detta è una serie infinita di mossette, macchiette, cliché partenopei, gag, balletti, saltelli – mai spettacolo fu più saltellato – che magari faranno tanto Settecento (ma l’opera buffa nasce appunto per rivendicare realismo e concretezza del quotidiano, altro che mossette) e dove non spunta mai un’idea forte, anzi un’idea tout court. Nessuno ci spiega perché dovremo interessarci alle Zite e che cosa quest’opera possa dirci oggi. E dire che, con i suoi intrighi sentimentali da soap opera partenopea, puro Un posto al sole, e la sua allegra fluidità sessuale, con innamorati dalla voce bianca, donne che si travestono da uomini e fanno innamorare altre donne, milfone smaniose e non dome benché ancora senza il conforto del lifting, l’opera alla contemporaneità parlerebbe, eccome.
Un’occasione mancata, insomma. Ma probabilmente ho torto io, visto che, per esempio, lo zuzzurellone dietro di me sghignazzava ogni volta che un pappagallo, la grande idea per il terzo atto, fischiava o blaterava qualcosa, ah ah ah, che ridere, davvero. Curioso, però, che le nuove produzione della Scala sembrino sempre degli spettacoli di trent’anni fa: ma si sa che questo teatro ignora serenamente tutto quel che succede fuori dalla cerchia dei Navigli. Anzi, data l’autarchia imperante, già che ci sono potrebbero ricominciare a cantare Wagner in italiano, sarebbe naturale dopo I vespri siciliani tradotti e i Contes d’Hoffmann spuri; farebbero pure contento Rampelli. Comunque, per Vinci esito buono: qualche pisolino, qualche fuga in corso d’opera, ma alla fine franco successo. Sarà merito del pappagallo.