Quello che resta quando la terra ha finito di tremare
Sono passati 14 anni dal terremoto a L'Aquila. "Ovunque andassi i ricordi di mio padre, del terremoto che fece parte della sua casa in Italia, erano con me, mi dicevano che sarebbe prima o poi successo". John Fante e i terremoti
Quando la terra trema e tu sei lì, nel punto esatto nel quale la terra trema e tanto, tutto crolla attorno, parte di quel tremore ti si ficca dentro. Resta lì, ogni tanto riprende vita e movimento, movimentando, inquietando, la vita di tutti i giorni. Quella solita, diventata solita dopo essersi trasformata diversa, evoluta, perché quel tremore non lo si può dimenticare, è nelle orecchie e negli occhi, dentro nel petto e si riattiva ogni tanto indipendentemente dal fatto che la terra tremi o sia cheta.
A volte si trasmette anche per discendenza familiare. Come se quel tremore fosse già lì, preparato ad attivarsi alla prima scossa di terremoto. C’è nei racconti, nei discorsi sospesi, negli occhi aperti alla ricerca di un segnale che quel tremore è reale e non solo immaginario.
John Fante il terremoto lo aveva già in sé prima ancora di sentire la terra tremare, le case crollare, la gente morire il 10 marzo 1933 a Long Beach. “Sono cresciuto con la sensazione che la terra prima o poi ci avrebbe inghiottiti”, raccontò in uno scambio di lettere con Gay Talese su Esquire. “Ovunque andassi i ricordi di mio padre, del terremoto che fece parte della sua casa in Italia, erano con me, mi dicevano che sarebbe prima o poi successo, che non si può essere davvero al sicuro in alcun posto”.
Il padre veniva da Torricella Peligna, in Abruzzo. Se ne andò da lì nel 1890, prese la via dell’Argentina, la trovò pessima, guardò a nord, all'America, per provare a cavalcare il sogno di una nuova vita, una nuova esistenza, migliore del niente che offriva all’epoca il suo paese. Finì dopo un vagare caotico a Denver, trovò un lavoro, l’amore, Mary Capolungo, americana di nascita, ma originaria della Lucania, emarginata da molto perché italiana. Capì che nulla poi era cambiato davvero, che le rovine che aveva visto in Abruzzo se le era portate dietro anche nel Nuovo mondo, come non ci fosse possibilità del nuovo se il vecchio ce lo si porta addosso. E lui si portava addosso il tremore.
A Denver quel tremore era fatto di parole, di sonni agitati, di ricordi che non se ne andavano. John da Denver se ne andò in autostop, raggiunse la California, prima di capire e vedere quel tremore arrivare, scuotere, sconvolgere, abbattere. Era il 10 marzo 1933, Long Beach. Entrò in Chiedi alla polvere nel 1939 e poi in A ovest di Roma, nel racconto L’orgia, uscito postumo.
“Ne scrissi perché ogni tanto serve fare i conti con le cose che sai che sono lì, nella testa, che ti stringono, anche se ormai sei abituato allo stritolio”, scrisse sempre a Talese.
Ne scrisse come fosse una cosa naturale, che non lascia traccia in noi, come fosse una di quelle burle del destino alle quali è stupido dare peso. “Ed è la capacità di John Fante a fare i conti con le ossessioni che ognuno di noi ha e farle sembrare leggere, il motivo per il quale John Fante è qualcosa di più di uno scrittore”, disse Charles Bukowski, “è un fottuto genio, perché ti fa stare bene e male, ma soprattutto bene, ti fa capire che è davvero tutto fottuto, ma c’è in fondo una speranza che anche se nulla cambia, in fondo anche un solo ricordo, pure il più dannato, ti farà compagnia. E questa è in fondo una consolazione”.
Anche il ricordo della terra che trema, la scossa che chi era lì, a L’Aquila il 6 aprile del 2009 non può che portare con sé. Quello che portano con loro tutti gli altri che erano nel punto esatto nel quale la terra ha tremato.