Anche l'unico romanzo di Patrick Leigh Fermor sembra un diario di viaggio
La Bbc lo descrisse come un incrocio tra Indiana Jones, Graham Greene e James Bond. Adelphi riporta in libreria il suo “I violini di Saint-Jacques”, vite ai piedi di un vulcano caraibico
È inevitabile la nostalgia di un tempo non vissuto, nello stile di Midnight in Paris, leggendo i libri di viaggio di Patrick Leigh Fermor. Mani o Tempo di regali, tra i suoi più celebri, sono finestre su una Grecia ora troppo turisticizzata o percorsi lungo le città sul Danubio prima della Seconda guerra mondiale, a piedi dal Belgio a Costantinopoli.
Pezzi di un mondo oggi introvabile, cambiato dalla storia sempre più veloce. Ma nella sua carriera di esploratore incallito, di girovago instancabile, di camminatore curioso – la Bbc lo descrisse come un incrocio tra Indiana Jones, Graham Greene e James Bond – Patrick Leigh Fermor ha anche scritto un unico romanzo, I violini di Saint-Jacques, che Adelphi riporta in libreria in una nuova traduzione di Daniele V. Filippi. Il viaggiatore inglese è abilissimo con le descrizioni, con le liste di oggetti e di nomi, con quell’effetto di realtà che, se non sapessimo che si tratta di un’opera di narrativa, non avremmo dubbi nel leggerla come il resoconto di un vero incontro.
La fiction di PLF non può che essere incentrata sul viaggio, e infatti il libro si apre con una mappa. Un’anziana enigmatica, che fuma una sigaretta dopo l’altra, racconta al narratore la storia del suo arrivo, molti anni prima, sull’isola di Saint-Jacques des Alizés nelle Antille francesi. Un’isola scoperta nel secondo viaggio di Colombo, originariamente abitata dagli indiani Aruachi che vennero però poi mangiati dai cannibali Caribi. La donna inizia a dipingere la vita bizzarra sopra quest’isola vulcanica, in un tempo a metà, dove era ancora forte uno spirito pre-rivoluzionario francese, permesso dal colonialismo, ma dove la cultura creola, il clima e le influenze caraibiche lo rendevano un luogo unico, decadente e quasi comico. Atmosfera di nostalgia monarchica con le palme, Rococò con le noci di cocco. Allievi di Liotard che ritraggono i notabili del luogo, surplus di servitù, aristocratici, animali dappertutto, serpenti che interrompono festicciole, recite con costumi “pseudospagnoli dell’epoca di Alfred de Musset”, manghi, ananas, avocado, quaglie in aspic e aragoste giganti, danze “spasmodiche affini al calipso”, lebbrosi.
Ma tutto quello che succede non può prescindere dal fatto che avviene sopra un vulcano, da cui spunta perennemente un rivolo di fumo grigio, che le case dove si balla e si beve e ci si innamora sono costruite sopra una possibile bomba a orologeria. E se dovesse eruttare, come fece proprio un secolo prima, proprio mentre a Parigi buttavano giù la Bastiglia? Gli uomini di fronte ai disastri naturali “si riducono al rango di formiche”. Racconta la donna: “Esplosioni, diluvi e glaciazioni, si potrebbe dire, sono le uniche vere date che marcano la storia, e ciò che le società umane improvvisano fra l’uno e l’altro di questi eventi – arte, civiltà, amore, guerre, letteratura… – ha tanto peso su questo calendario fondamentale quanto una pagina dei Ricordi di un entomologo di Fabre”. E poi, che senso ha descrivere tutto nei minimi dettagli se potrebbe essere spazzato via dalla lava? Eppure, lì, nessuno sembra fare niente per prepararsi all’eventuale devastazione. Leggendo I violini di Saint-Jacques viene in mente La Soufrière, quel cortometraggio di Werner Herzog del 1977 dove il regista vaga per una città deserta, Basse-Terre, in Guadalupe, evacuata per il pericolo che il vulcano erutti. Il sottotitolo è In attesa di un disastro inevitabile. Herzog parla con alcune persone rimaste lì, che rischiano la vita o che sono in attesa della morte. “E’ pericoloso qui”, dice il regista a uno di questi uomini, “sei seduto su una polveriera”. E lui risponde che tanto lo siamo tutti. A cosa serve scappare?