Foto Wikimedia Commons

facce dispari

Emiliano Sciarra, l'inventore di giochi copiato dai cinesi

Francesco Palmieri

Il suo Bang! è stato plagiato in Cina diventando San Guo Sha. "Il gioco è un atto creativo che neanche puoi brevettare in quanto tale. E alla Siae non esiste una sezione giochi. Si può depositare il regolamento come opera letteraria, il tabellone come opera figurativa, ma il gioco è un insieme olistico che non si può frazionare"

Forse pochi lo sanno ma Emiliano Sciarra, 52 anni da Civitavecchia, è il creatore del gioco italiano più venduto di tutti i tempi, distribuito in ventiquattro paesi e tradotto in una quindicina di lingue. Eppure non è milionario, e se fossimo al suo posto soffriremmo di incubi notturni rispondendo alla domanda conradiana del Lord Jim: “A chi mai verrebbe in mente di sognare un cinese?”. Perché Bang!, il gioco di carte ideato da Sciarra, con titolo e personaggi mutati è stato copiato in Cina col nome di San Guo Sha, diventando anche il gioco da tavolo cinese più venduto: a Pechino, dove hanno aperto alcuni bar San Guo Sha, è materia di un corso di strategia al Politecnico mentre la versione online conta 250 milioni di iscritti. Possibile per una ragione: la normativa sul diritto d’autore. O meglio i suoi vuoti. Non esiste una tutela specifica per i giochi da tavolo.

   

    

Gli autori di giochi sono così poco protetti?

Il gioco è un atto creativo che neanche puoi brevettare in quanto tale. E alla Siae non esiste una sezione giochi. Si può depositare il regolamento come opera letteraria, il tabellone come opera figurativa, ma il gioco è un insieme olistico che non si può frazionare, non è solo il suo regolamento o la grafica. Il paradosso è che si può depositare se è un format tv, come il gioco dei pacchi.

 

E i videogiochi?

Il copyright tutela il software. I videogiochi perciò sono molto più protetti e rappresentano un’industria gigantesca, più grossa di quella del cinema, mentre i giochi da tavolo muovono un mercato di proporzioni minori, anche se nell’ultimo decennio è cresciuto a doppia cifra. Non tanto però da spingere gli editori del settore ad associarsi.

 

Se qualcuno decidesse di replicare il Monopoly potrebbe farlo?

Ovviamente non può plagiarne il logo né utilizzare quel tabellone e quelle carte. Però potrebbe riproporre i princìpi e il concetto del gioco. Vale la stessa cosa per il mio Bang!, che ho ambientato nel Far West. Se domani qualcuno lo chiama Bum! e lo traspone nello Spazio è liberissimo di farlo.

  

Come hanno fatto i cinesi.

Chiamandolo San Guo Sha e riambientandolo nella loro epopea dei Tre Regni, però lo hanno copiato in tutto e per tutto salvo minime modifiche. Il mio editore ha intentato una causa, ma come era prevedibile l’abbiamo persa. E poiché i cinesi hanno lanciato anche una versione inglese del gioco, ci siamo appellati alla giustizia negli Stati Uniti. Ma neanche il giudice americano ha riconosciuto il plagio.

 

Perché?

Il diritto d’autore non protegge l’idea del gioco, ma le sue espressioni. Basta mettere al posto del mio cowboy un guerriero e un sovrano invece dello sceriffo. È una beffa semantica. I cinesi hanno ammesso di essersi rifatti a Bang! proprio perché si può.

 

Quanto ha venduto San Guo Sha?

Stima molto approssimativa: fra 30 e 50 milioni di copie.

 

Che frustrazione.

Anche morale: se Bang! non fosse un gioco di carte ma un’opera di altro tipo sarebbe considerato un’eccellenza italiana. Invece, per un pregiudizio nostrano i giochi sono reputati cultura di serie b piuttosto che un atto creativo come la composizione di una musica. Si sta riconoscendo una valenza estetica ai videogiochi, sempre più simili ai film, mentre per i giochi da tavolo è complicato: ricostruiscono un mondo, non una storia, e in modo astratto. È più difficile comunicare sentimenti e gli stessi autori non praticano quest’intento.

 

Altrove è diverso?

Per esempio in Germania c’è più considerazione culturale. Deriva, ne sono convinto, anche da un fattore climatico: nei paesi freddi si trascorre più tempo coi giochi da tavolo, sia di carte sia da tabellone. In Italia purtroppo il gioco è visto come roba per bambini e un adulto che gioca è giudicato infantile. Eppure i giochi trasmettono messaggi anche importanti, persino contro le intenzioni degli autori: tornando a Monopoly, nacque come critica al capitalismo e invece ne diventò un’esaltazione, tanto che nei Paesi comunisti era proibito importarlo.

 

Qualche anno fa lei ha scritto il libro “Il simbolismo dei giochi”, dagli scacchi al gioco dell’Oca, del quale ricorda che non era solo un passatempo per bambini.

Nessun gioco fu solamente questo. Il Gioco dell’Oca che si diffuse nel sedicesimo secolo ebbe un antesignano egizio e s’ispirava all’opera alchemica, come rivelano ancora certi nomi delle caselle: il pozzo, il ponte. È affidato alla pura fortuna, al tiro dei dadi, ma più del cieco caso riflette una concezione della natura perduta con il tempo. Oggi se ne sono smarrite le chiavi, resta l’aspetto di intrattenimento o quello intellettuale come negli scacchi, in cui si celava anche un simbolismo morale straordinario. Pensi solo al re come rappresentazione della volontà, indispensabile per muovere qualunque pezzo. Lo scacco matto rende impossibile l’attivazione di qualsiasi facoltà, perché senza volontà tutto finisce.

 

Come le nacque la voglia di creare giochi?

Un impulso da bambino, finché scoprii il computer e per quindici anni inventai videogiochi. Poi, frequentando proprio a Civitavecchia un gruppo di giocatori da tavolo, rimasi sedotto dalla loro libertà creativa. Bang! è nato così: realizzare un party game divertente ma non banale, immaginato nel vecchio West perché è un mondo che comprendono tutti. Persino in Cina, tanto per dire.

Di più su questi argomenti: