Le conseguenze dell'IA
Macchine intelligenti per produrre uomini stupidi. Marcuse utile all'oggi
Il sociologo e filosofo “francofortese” denunciava la pericolosità della tecnologia usata come forma di controllo sociale. I rischi per la cultura del lavoro e il senso di realtà in un mondo che cambia
Quando la cultura intesa come ambito speciale provoca più peggioramenti che miglioramenti qualitativi a sé stessa e a ciò che produce (musica, cinema, comunicazione, letteratura, arti visive) allora può venire la voglia di ricordare che la cultura di una società coincide con tutte le caratteristiche della vita sociale. Per esempio: abbiamo creato una socialità nella quale fare scuola risulterà presto impossibile, come si comincia a vedere già oggi. Altro esempio: mi sembra che la progressiva degradazione e l’impoverimento culturale del lavoro, sia manuale che intellettuale, abbia effetti negativi in tutta la vita culturale, cioè nella società. Sono indotto a valorizzare queste ovvie connessioni dopo aver letto alcuni articoli che toccano fenomeni superficialmente considerati eterogenei, ma che invece, probabilmente, sono correlati: a) il nuovo lavoro industriale alle prese con l’intelligenza artificiale, b) il diffondersi di aggressività e violenza nella società e c) il nostro rapporto con il patrimonio culturale ereditato, che è sempre più difficile trasmettere alle nuove generazioni.
Benché la sociologia attuale appaia piuttosto in declino se la si confronta con le sue origini e la sua tradizione classica, di analisi e diagnosi sociologiche non possiamo fare a meno. Tendiamo a fare sociologia spicciola, improvvisata e in briciole, anche quando commentiamo lo stato attuale dei partiti politici, le tendenze oscillanti degli elettori, i comportamenti civici e quotidiani, i rapporti che le più giovani generazioni mostrano di avere con sé stesse, con gli altri e con il lavoro. Per chi poi cerca di orientarsi nella cultura “corrente” (che corre, sì, corre e sparisce), tra istituzioni educative e consumi estetici di massa, non c’è modo di giudicarla e capirla senza ricorrere alla psicologia sociale, agli orientamenti della mentalità, alla formazione del carattere, al rapporto fra mode e merci consumate. Si è parlato molto, anche troppo, della sociologia “selvaggia”, non professionale, cioè autobiografica, che ci ha lasciato Pasolini mezzo secolo fa. Il suo successo e la sua forza di suggestione erano e sono dovuti anche alla sua discutibilità e ai sentimenti contrastanti suscitati dal personaggio pubblico che Pasolini era. Ma non si è notato abbastanza che le sue idee venivano direttamente dal maggior bestseller sociologico degli anni Sessanta, L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, il più estroverso e accessibile dei sociofilosofi “francofortesi”.
Nel Sessantotto il libro di Marcuse ebbe successo più essendo stroncato che accettato dai movimenti politici e dagli intellettuali militanti di allora. Si continuava a credere in modo acritico al marxleninismo, alla lotta frontale e finale (così ci si augurava) fra classe operaia e capitale, mentre Marcuse vedeva piuttosto la tendenza “totalitaristica” del capitalismo sviluppato, con il ruolo centrale della tecnologia e della tecnocrazia nel controllo sociale. La società tecnologica unidimensionale, e gli individui stessi come esemplari di un “One-dimensional man” mai visto in precedenza, erano i segni di una trasformazione antropologica a tutti i livelli, dal lavoro alla psicologia, al linguaggio, all’ideologia politica. Negli anni Sessanta-Settanta italiani si erano imposte due vecchie mitologie: quella di una classe operaia sempre uguale a sé stessa nella sua ontologia eversiva; e quella di un partito di rivoluzionari di professione da ricostruire. Si era tornati ai primi decenni del Novecento e questo non poteva che preludere alla formazione di micro-organizzazioni terroristiche.
Marcuse guardava invece alla società e alla cultura nel loro insieme e nella loro unità, per come si erano trasformate negli Stati Uniti. Gli era quindi più facile prevedere il futuro, dalle trasformazioni degli anni Ottanta fino a oggi. Parlava di un mutamento di struttura sia nell’intera società (modellata, anzi creata dalle tecnologie) che negli individui e nella loro costituzione psicomentale. Oggi si parla di “integrazione” positivamente produttiva fra intelligenza artificiale e esseri umani. Ci si chiede quale sia il modo migliore per incrementare l’efficienza del lavoro. Non ci si chiede mai, però, quali esseri umani di nuovo genere saranno prodotti da una tale integrazione tra uomo e robot. Non si tratta più del “lavoro alienato” di cui parlava Marx ricordando Hegel, ma si tratta di lavoratori psicomentalmente modificati, sempre più incapaci di concepire cambiamenti sociali e politici diversi perché migliori. La macchina intelligente non è più una macchina che è fuori e di fronte all’operaio; è dentro il lavoratore “integrato” in essa: lo guida e lo assimila a sé. Il suo lavoro è ridotto ad attivare e controllare, a essere attivato e controllato dalla macchina. Che tipo di lavoratore, che tipo di essere umano sarà? Quando l’intelligenza produttiva è prevalentemente delegata a dispositivi automatici e la fatica è ridotta al minimo, un lavoro umano sempre più deprivato di intelligenza e abilità lavorative ha bisogno solo di addetti che non hanno niente in comune né con l’operaio di un tempo, né tantomeno con l’artigiano di secoli e millenni fa. La cultura del lavoro rischia così di essere ridotta a zero.
Perché si possa dire che qualcuno “sa lavorare” è necessario che il lavoro presupponga un sapere e una abilità tecnica. Più complesso è quel sapere, più abilità un lavoro richiede, e più nutre la cultura di una società in tutti i suoi aspetti. Se c’è e c’è stato un modello temuto e disprezzato di uomo al lavoro, questo modello e tipo umano è quello inquietante del burocrate (demonio che terrorizzava Kafka). La burocrazia chiede degli addetti, cioè dei lavoratori il cui lavoro è quasi del tutto privo di contenuto. Il lavoratore è così un “hollow man”, una specie di usciere o di guardiano. Oggi esistono ancora esseri umani reali agli occhi di uomini svuotati e riempiti tecnologicamente che passano la maggior parte del loro tempo con gli occhi, gli orecchi e il cervello dentro una macchinetta elettronica dotata di poteri sovrumani? L’abitudine a evocare e cancellare, a far esistere e a far sparire immagini su un display non può che modificare e indebolire negli individui il senso di realtà. Per l’uomo unidimensionale e vuoto è naturale negare mentalmente la realtà, o fisicamente aggredirla e violentarla.
Nel momento in cui l’efficienza produttivo-distruttiva mobilita la società nel suo insieme, il legame sociale fra esseri umani deperisce fino a sparire. I troppi episodi di aggressività inconsulta e di violenza omicida di cui ci parla la cronaca negli ultimi tempi, fanno pensare all’avvento di tipi antropologici socialmente pericolosi. Leggo che, secondo un rapporto della Direzione centrale della polizia criminale, negli ultimi tre anni la criminalità giovanile è cresciuta del 35 per cento, le percosse del 50 per cento, le rapine in strada del 91 per cento. La violenza online dilaga nelle più varie forme. E in più siamo in attesa di ciò che l’impatto dell’intelligenza artificiale provocherà sui lavoratori e su tutti. Il Forbes Technology Council fa discutere in proposito una serie di esperti. Dovremo fidarci degli esperti? In che cosa sono esperti? In buona o cattiva umanità nel presente e nel futuro? Ne dubito. Prima dovrebbero dirci, in confidenza, che cosa pensano, di che cosa hanno più paura, a che cosa aspirano.