il ritratto
L'audace vita di Guido Keller, il pilota più pazzo del mondo
Imprese, illusioni, farneticazioni e provocazioni di un eroe anarcoide che scorrazzava su un aereo leggendo Shakespeare. Fu con D’Annunzio a Fiume. Morto a trentasette anni, è sepolto al Vittoriale accanto al Vate
E’ consuetudine, durante le mie ricerche fluviali, che mi lasci trascinare dalla corrente di affluenti non previsti. Non solo da lettrice, ma anche da viaggiatrice o da semplice camminatrice su strade cittadine, mi capita di inoltrarmi “fuori pista”, seguendo l’istinto prima ancora che la mappa. E’ così che ho conosciuto molti dei personaggi che vado raccontando negli ultimi anni, è così che ho incontrato l’uomo di cui parlerò in queste pagine: un comprimario dallo spessore del protagonista, il cui nome, se non fosse per il riverbero oscuro di un’epoca fosca, sarebbe noto a tutti.
“Moltissima mia infantilità e moltissima mia tendenza borghese, nella mia vicinanza a quest’uomo, si staccarono da me”, scrive Comisso
E dunque, mentre navigavo il fiume Giovanni Comisso (mai metafora fu più pertinente), fra le tante cose lette, questa sua dichiarazione mi ha fatto cambiare rotta: “Lo riconoscevo superiore a me e capace di imprimermi un nuovo senso della vita. Moltissima mia infantilità e moltissima mia tendenza borghese, quasi superate colle mie esperienze di guerra, nella mia giornaliera vicinanza a quest’uomo audacissimo, si staccarono definitivamente da me”. L’aggettivo scelto dallo scrittore Comisso (sul quale mi riprometto di scrivere un meritato ritratto), “audacissimo”, è quanto mai appropriato, poiché tutto, tutto ciò che riguarda la vita di Guido Keller, l’amico capace di imprimere un “nuovo senso della vita”, è superlativo.
Siamo nel primo ventennio del Novecento, un tempo generoso di eventi e personalità fuori dal comune. Guido Keller von Kellerer, nato a Milano nel 1892, discende da una nobile famiglia elvetica. Sin da ragazzo si dimostra refrattario alla disciplina, i genitori tentano di irregimentarlo iscrivendolo in un collegio svizzero da cui sarà presto espulso. E’ attratto dalla filosofia, dalla letteratura, dall’arte e lo terrorizzano l’ozio, la noia e la vita borghese. Vuole, prima di ogni altra cosa, sentirsi libero. Come gli uccelli. Così decide di volare.
Sin da ragazzo si dimostra refrattario alla disciplina, è attratto dalla filosofia, dalla letteratura, dall’arte. L’aria è il suo elemento
E’ l’aria il suo elemento, lo capisce appena prende posto su un velivolo del Battaglione aviatori civili di Mirafiori, dove si è iscritto. Dimostra subito un talento fenomenale, e in breve ottiene il brevetto di pilota. Siamo alla fine del 1914, ancora pochi mesi da aviatore civile, poi, allo scoppio della guerra, Keller viene arruolato come pilota militare dell’Aeronautica dove eccelle al comando dei caccia. E’ talmente bravo da guadagnarsi il titolo di comandante della famosa squadriglia di Francesco Baracca, gli Assi (lui sarà l’asso di cuori), ma nonostante il ruolo che ricopre si ostina a disdegnare la disciplina: non indossa la divisa, preferisce volare in pigiama, calzando babbucce orientali. Sul capo, un fez da bersagliere da cui pende mezzo metro di spago con un fiocco annodato all’estremità, e come co-pilota un teschio del quale non si separa mai, il suo portafortuna. Durante i combattimenti spesso si lascia distrarre dal paesaggio o dalle pagine dei libri che è solito sfogliare come se fosse seduto su una poltrona di casa: volando, legge l’Orlando Furioso, le liriche di Leopardi, Shakespeare (una volta si fece prendere da una crisi di nervi perché uno dei suoi volumi era stato raggiunto da una pallottola: “è illeggibile!!” fu il suo commento una volta atterrato), e proprio come in un salotto, a bordo tiene sempre pronto un servizio da tè con biscotti… Ma quando si tratta di passare all’azione non ha eguali (l’audacia naturale è corroborata da un copioso consumo di cocaina, abitudine diffusa fra i piloti che se ne servivano per restare vigili durante le lunghe ore di volo), e alla fine della guerra potrà vantare più di quaranta combattimenti contro aerei nemici (molti dei quali in attacchi solitari contro intere pattuglie avversarie) e tre medaglie d’argento al valor militare, che non esibirà mai. Le stravaganze di Keller, che vengono tollerate grazie al rispetto guadagnato in servizio, accrescono l’aura mitologica intorno a lui: sono infiniti gli aneddoti riportati sullo stile di vita adottato, le idiosincrasie, le abitudini igienico-naturistiche. Ama dormire all’aperto: all’alloggio degli ufficiali preferisce la fossa che ha fatto scavare dai suoi soldati ai piedi di un albero, sul quale è solito arrampicarsi completamente nudo. Il nudismo è una pratica che non abbandonerà mai, insieme al crudismo (si nutre principalmente di latte, frutta e verdura) e alla vita all’aria aperta. Temuto e ammirato dai suoi commilitoni dai quali si tiene a distanza, Keller preferisce la compagnia di un’aquila, da lui stesso addestrata, che porta il suo nome: Guido. E’ un solitario, un fantastico fricchettone ante litteram, un folle.
Le sue stravaganze sono tollerate grazie al rispetto guadagnato in servizio. Pratica nudismo e crudismo, va in giro con un’aquila addestrata
Ecco come lo ricorda Mario Fucini, generale dell’Aeronautica durante la Prima guerra mondiale: “Era piccolo di statura, con una capigliatura sempre troppo abbondante e arruffatissima e una barba selvaggia con baffi da moschettiere. Aveva uno sguardo fra l’accigliato e il tenero. Nessuno lo sentì mai alzare la voce. Sorrideva di rado, e semmai lo faceva, era un sorriso che non dimenticavi più, niente ironia, niente superiorità: il bel sorriso puro di un fanciullo. Sempre spiantato e sempre trasandato nel vestire ma con l’indifferenza del gran signore, un giorno ti capitava davanti con un capo di raffinata eleganza, ma il giorno dopo la cravatta era lordata da una larga macchia d’olio e le scarpe erano orribilmente scalcagnate. Le aveva adoperate per una gita in montagna dove si era arrampicato di notte per assistere allo splendore dell’alba, e ti raccontava, senza enfasi però, la commozione che ne aveva provato”. Un perfetto eroe letterario che ha avuto la fortuna di vivere in un’epoca in cui l’indole del dropout non solo non veniva emarginata, ma al contrario, trovava terreno fertile per esprimersi. Immaginiamo la vita grama che avrebbe avuto oggi, Guido Keller. Non tutti hanno la fortuna di nascere al momento giusto.
Vive il conflitto bellico come esaltazione contrapposta alla pace che trascina con sé lo spettro di una vita banale. Keller lo teme più di tutto
A motivare simili spiriti è l’orrore per la vita di tutti giorni, il disprezzo per gli ordini costituiti, l’irrisione verso le convenzioni, il conformismo, la religione, la rispettabilità, la famiglia. L’insensatezza della vita si esprime nello sprezzo del pericolo, nell’esaltazione eroica di ispirazione nichilista. Il conflitto bellico viene dunque vissuto come esperienza esaltante in contrapposizione al tempo di pace che trascina con sé l’orrido spettro di una vita banale. Keller lo teme più dei nemici che ha combattuto e non c’è da stupirsi se la seconda fase della sua vita trova nell’impresa dannunziana di Fiume il degno coronamento. Ha conosciuto D’Annunzio durante la guerra, è l’uomo del suo destino.
Quando assiste ai comizi accorati del Vate, che non si rassegna alla mancata annessione di Fiume e della Dalmazia (la “Vittoria mutilata”) e si unisce alla resistenza fiumana prendendone il comando, Keller ne diventa il seguace più fervido, e decide di seguirlo in una delle imprese più folli e straordinarie del Novecento.
Una vicenda rimossa dalla storia repubblicana del nostro paese e strumentalizzata dalla destra post-fascista che ne ha mistificato la matrice insurrezionale e avanguardista. L’avventura fiumana (è forse questo il termine più adatto, avventura) andrebbe rivista con altri occhi, considerata con altri pensieri, ripulita dai sigilli politici che le sono stati attribuiti e giudicata da un punto di vista sociale, storico, filosofico e addirittura artistico (aspetto a mio avviso fondamentale). Mi chiedo come mai il cinema, il cui linguaggio si presterebbe a restituirne la portata, non abbia preso in considerazione un avvenimento che proprio attraverso la spettacolarizzazione ha espresso la sua essenza. Una rivoluzione guidata da un poeta, non è forse un soggetto memorabile?
Una rivoluzione guidata da un poeta, non è forse un soggetto memorabile per il cinema? A Fiume confluiscono personalità di ogni genere
Keller non è il solo a lasciarsi trascinare dall’utopistico progetto dannunziano. A Fiume confluiranno personalità di ogni genere: artisti, avventurieri, reduci di guerra, intellettuali, militari ribelli, idealisti, scappati di casa, eccentrici e arditi. Tutti (o quasi) vogliosi di riscattare il nazionalismo ferito. Fra loro, Guido Keller ricoprirà un ruolo fondamentale, a cominciare dal rocambolesco ingresso in città, il 12 settembre 1919. Per trasportare i volontari che da Ronchi vogliono raggiungere Fiume, Keller ruba degli autocarri del nemico e arriva in città con un seguito da 186 granatieri, quattro autoblindi di bersaglieri più un numero imprecisato di volontari. La presa di Fiume si svolge pacificamente, nessuno ha il coraggio di fermare il poeta-soldato che fa il suo ingresso in città acclamato dalla folla. Appena insediato, D’Annunzio pronuncia il famoso discorso dal balcone (futura ispirazione per chi sappiamo): “Italiani di Fiume! Nel mondo folle e vile, Fiume è oggi il segno della libertà! Nel mondo folle e vile vi è una sola verità: e questa è Fiume, vi è un solo amore, e questo è Fiume…”. Una prosa roboante che incendia gli animi, sono tutti con lui. Si inaugura così la “città di vita” in cui tutto è lecito, e tutto è possibile. Amore libero, droga, feste e baccanali fanno di Fiume una Bengodi aperta a ogni esperienza: “Un’ondata di allegria futurista!” come dirà Marinetti di passaggio, anche lui, a Fiume.
Si danno del tu, privilegio che il cinquantasettenne Comandante (così si faceva chiamare D’Annunzio) concede a Keller e a nessun altro
Accanto a D’Annunzio c’è sempre Guido Keller: fra i legionari è uno dei suoi prediletti, ne ammira il coraggio, l’anticonformismo ma anche la cultura, profondissima e mai esibita. Keller troverà a Fiume tutto ciò che aveva sempre desiderato, il luogo in cui sentirsi finalmente a casa, e in D’Annunzio il riferimento esistenziale nel quale specchiarsi. Si danno del tu, privilegio che il cinquantasettenne Comandante (così si faceva chiamare D’Annunzio) concede a lui e a nessun altro. “Tu hai l’aria di cercarmi” scriverà il Vate in una delle tante lettere “e pur son io che cerco te. L’altrieri fuggisti fuggendomi: la tua mania perpetua è l’evasione. Tu evadi nell’alto cielo, o nello spazio lirico. Il tuo regno non è di questa terra, né di questa terra è il mio. Perciò, simili, ci amiamo e ci abbominiamo”. Lo nomina “segretario d’azione”, incarico che Keller inaugura con un’iniziativa degna del suo stile: redige una circolare indirizzata ai direttori dei manicomi d’Italia invitandoli a inviare “tutti quei soggetti considerati come non pericolosi e riconosciuti comunemente con la denominazione di maniaci” con lo scopo di formare una guardia per la difesa del Comandante. Nella squadra recluta i reietti, gli esclusi, i tossicomani, perché, dice: “Non occorre il passo militare prussiano, né le gerarchie dei valori fissati con le tre dimensioni; non per nulla abbiamo raggiunto la quarta”. L’ennesima conferma della sua insofferenza per la disciplina militare. Sul reclutamento di questa banda di emarginati, talvolta scovati nei cantieri navali deserti, Giovanni Comisso, legionario anch’esso e futuro compagno inseparabile di Keller durante la stagione fiumana, scriverà: “Andato a vedere cosa vi facevano lì, ai cantieri, li trovò che se ne stavano nudi a tuffarsi dalle prue delle navi immobilizzate. Altri, arrampicati sulle gru, cantavano. Li fece adunare e li passò in rassegna: erano tutti bellissimi, fierissimi, e li giudicò i migliori soldati di Fiume. Inquadrò questi uomini che tutti chiamavano i disperati per la loro situazione d’abbandono, e li offerse al Comandante come una guardia personale. La sua decisione fece scandalo tra gli ufficiali superiori, ma il Comandante accettò l’offerta. Keller aveva dato vita ad un nuovo ordine militare”. Il piccolo esercito verrà ironicamente denominato La Disperata. I nuovi soldati, senza l’obbligo di divisa, marciano cantando a torso nudo e calzoni corti per la città: “Erano un manipolo di uomini spregiudicati, fiore della rivolta e della libertà, mastini e fanciulli, determinati come soldati della morte ma lieti come atleti sempre in gara”. A Fiume le regole e i valori vengono dunque sovvertiti in nome di un esperimento sociale senza precedenti, basti leggere l’avveniristica Carta del Carnaro, la Costituzione di sapore similbolscevico promulgata negli ultimi mesi dell’impresa fiumana, redatta dal sindacalista socialista Alceste De Ambris (e rielaborata nella forma, ma non nella sostanza, da D’Annunzio) che promuove, fra le altre cose: la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, razza, lingua, classe e religione, la libertà di espressione, il diritto di voto per uomini e donne, un salario minimo per tutti, il diritto allo scioglimento dei voti o al matrimonio per i religiosi, il divorzio. L’omosessualità, fra le altre cose, è tollerata, e Keller, bisessuale dichiarato, non si lascia sfuggire molteplici occasioni. Il ‘68, con la sua fantasia al potere, sarebbe arrivato cinquant’anni dopo.
I giovani ribelli (che lo sprezzante primo ministro Francesco Saverio Nitti definisce “mattoidi”), molti dei quali segnati dal trauma della guerra, approfittano di questa conquistata libertà per promuovere iniziative e progetti d’avanguardia mal visti dai conservatori che gravitano intorno a D’Annunzio. Passata la febbre dei primi mesi di occupazione, lo spirito comunitario si stempera creando fazioni contrapposte esacerbate dalle conseguenze dall’embargo inflitto dal governo italiano, che non sapendo più come contrastare l’occupazione fuorilegge di Fiume, ha deciso di tagliare i rifornimenti destinati ai legionari. Anche in questo frangente la partecipazione di Keller, che si distinguerà per i suoi “colpi di mano”, è fondamentale. Durante la carestia, sale sul suo aereo e va in cerca di viveri. Sul velivolo riuscirà a caricare un maiale, delle galline e anche dei cocomeri che però sfondano l’abitacolo e precipitano in volo. Da terra scambiano i cocomeri per bombe e sparano sull’aereo prima di riconoscerne il pilota. Insieme a una pattuglia soprannominata gli “Uscocchi” (dal nome di antichi corsari croati), assalta navi e treni per impossessarsi del loro carico e sequestra quarantasei cavalli all’esercito italiano che risarcirà sostituendoli con altrettanti ronzini spelacchiati. Azioni piratesche che garantiscono però la sopravvivenza dei ribelli e amplificano la fama dell’aviatore.
Saputo dell’imminente ratificazione del trattato di Rapallo, Keller vola in aereo su Montecitorio dove sgancia un pitale con un mazzo di rape
In aperto contrasto con “il vecchiume”, Keller e Comisso fondano l’associazione Yoga, “Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione”, un movimento spontaneista che adotta metodi non convenzionali d’intervento basati sull’irrisione e la provocazione di bakuniana memoria (“una risata vi seppellirà”). Si professano “Rivoluzionari non contro un partito o per un partito ma rivoluzionari contro quello che siamo”. La Yoga si esprime attraverso riunioni aperte al pubblico, volantini, manifesti e un giornale, ma soprattutto mediante azioni dimostrative di cui Keller è fautore insuperabile. L’azione più spettacolare, sui cieli di Roma. Saputo dell’imminente ratificazione del trattato di Rapallo, che avrebbe sancito l’indipendenza di Fiume vanificando di fatto l’annessione all’Italia, Keller decolla verso la capitale con lo scopo di indurre i governanti a non concludere gli accordi, ma un guasto lo costringe a un atterraggio di fortuna. Raggiunge Roma in treno, ma non riesce a farsi ricevere da nessun politico. Nel frattempo il trattato è stato firmato, e allora, una volta recuperato l’aereo, sorvola prima il Vaticano, sul quale lancia una rosa bianca con una dedica a “Frate Francesco”, poi si dirige sul Quirinale a cui destina sette rose rosse “alla Regina e al popolo d’Italia” e infine su Montecitorio dove sgancia un involucro che viene erroneamente scambiato per una bomba e che poi si rivela nel suo significato irriverente: si tratta di un pitale al cui interno è stato fissato un mazzo di rape e un biglietto: “Guido Keller dona al Parlamento e al Governo che si reggono da tempo con la menzogna e con la paura, la tangibilità allegorica del loro valore”. Una pura azione dadaista che verrà replicata, qualche giorno dopo, sulla Dalmazia, rea di aver accettato pedissequamente le decisioni del Governo italiano. Raggiunta Zara, Keller lancia dei volantini contenenti un discorso di D’Annunzio (i discorsi del D’Annunzio politico sono forse fra le sue opere migliori…). Costretto all’atterraggio, viene convocato dal governatore, dal quale ottiene il permesso per tornare a Fiume con il suo aereo. Non contento, fa richiesta di un passaporto da fornire a “un rappresentante del popolo dalmata che si è offerto di seguirmi per incontrare il Comandante”. Quando l’ufficiale che deve consegnare i documenti al presunto ambasciatore dalmata si presenta sulla pista d’atterraggio, Keller glielo presenta: si tratta di un somaro, che senza indugi viene caricato sull’aereo in partenza per Fiume.
Nel bellissimo libro di Comisso Il porto dell’amore, che evoca i quindici formidabili mesi fiumani attraverso la cronaca incantata e sensuale di una stagione che si vorrebbe eterna, il personaggio a cui l’autore non dà un nome (ma che si intuisce essere Guido Keller) dice: “Pensa alla nostra vita di questi giorni di cui vogliamo essere sazi e del tempo che ci sta davanti. Come potrà tale perfezione durare e come potremo trovarne d’uguali?”.
Dopo Fiume, la Libia. La sua casa è un veliero abbandonato: riceve l’élite coloniale e i locali per i quali nutre un trasporto che solleva scandalo
Il tempo che Keller ha davanti a sé sarà breve, ma come la sua vita ha dimostrato, avrà per lui un valore diverso, considerando il numero impressionante di cose fatte, azioni compiute, viaggi intrapresi. La “perfezione” conosciuta a Fiume sarà cercata, inseguita e mai più ritrovata. Fuori da quell’oasi di libertà nulla pare compensare la perdita del sogno. Conclusa l’avventura fiumana, terminata nel peggiore dei modi (o forse nell’unico modo possibile), e cioè con le cattive maniere essendo state inascoltate le buone, Keller le prova tutte. Mentre il suo Vate abbandona il campo, dopo l’annuncio del blocco totale di Fiume proclamato dal generale Caviglia (“Sarà proceduto con qualsiasi mezzo contro chiunque il quale tenterà violare il suddetto”), al quale replica con una battuta degna della sua fama “Due pronomi: chiunque, il quale. Fiume, dunque, cadrà sotto una ferocia sgrammaticata”, Keller si trasferisce in Turchia dove tenta di creare una propria compagnia aerea, che fallirà ben presto. Squattrinato, torna in Italia e si iscrive al partito fascista ma durerà poco, il partito non fa per lui ma soprattutto è lui che non fa per il partito: è un soggetto ingestibile considerato pericoloso, si preferisce spedirlo a Berlino con la nomina di addetto aeronautico presso l’Ambasciata d’Italia, titolo quanto mai inappropriato. Il diplomatico Keller si presenta a un ricevimento in frac e sandali ai piedi, tanto basta per revocargli l’incarico. Nel 1923 vola a Bengasi, in Libia. La sua casa, aperta a tutti, è un veliero abbandonato: riceve l’élite coloniale ma anche e soprattutto i locali per i quali nutre un trasporto che solleva scandalo. Scopre il deserto, che sorvola in continuazione. Durante una ricognizione punitiva contro i ribelli al governo coloniale, viene colpito dal fuoco di contraerea ed è costretto ad atterrare. Pronti a finirlo, i ribelli si avventano sul velivolo ma si arrestano quando vedono sbucare dalla fusoliera un uomo dalla lunga barba scura abbigliato esattamente come loro. Racconto di fantasia? Visti i precedenti l’episodio è plausibile, ma a spazzare via i dubbi è una fotografia che lo ritrae in posa accanto ai ribelli, sedotti a tal punto da risparmiargli la vita e scortarlo alla base in sella ai loro cavalli. Altri scatti memorabili ritraggono Keller su uno scoglio a Fiume, nudo, in posa da tritone, o sghignazzante su un pitale (forse lo stesso che poi lancerà su Montecitorio, chissà). Nel 1926 viene tentato dal Sudamerica, risale il rio delle Amazzoni, visita il Brasile, il Cile, il Venezuela, poi si ferma in Perù a cercare l’oro. Ne troverà poco, in compenso la cocaina abbonda. Si infila in traffici discutibili. L’ambasciata lo rimpatria. Finisce in miseria a Ostia, il luogo meno avventuroso al mondo, e muore, a trentasette anni, nel modo meno eroico che si possa immaginare: un incidente d’auto. Guidava un suo amico, rimasto illeso.
Il corpo di Guido Keller viene spedito a Gardone Riviera su richiesta di Gabriele D’Annunzio, che lo veglierà una notte intera. “Egli era dei pochissimi che sanno amarmi come io voglio essere amato”. “L’Ardente disperato”, come amava definirsi, è sepolto al Vittoriale, accanto al suo Vate.