Tutti in riga dall'imperatore
Alla corte cinese, il “koutou” era l’inchino chiesto anche agli occidentali. Un rito che oggi si ripete sotto altre forme
Nel settembre 1792 Lord George Macartney salpò da Portsmouth per una missione alla corte dell’imperatore della Cina. L’obiettivo era risolvere una serie di ostacoli al commercio a Canton, allora l’unico ingresso per le merci estere, aprire nuovi porti all’export occidentale in Cina centrale e settentrionale, porre le basi per un trattato tra i due Paesi, e se possibile stabilire una legazione permanente a Pechino. Finì in un nulla di fatto. Si sarebbero fatti nei decenni successivi la guerra anziché la diplomazia. Per spiegare l’incomprensione si sarebbe fatto, spesso e volentieri, ricorso alla faccenda del koutou. La ricerca storiografica più recente tende a sminuire l’importanza di questo fattore e a mettere l’accento su altri elementi, più sostanziali. Il koutou, letteralmente faccia a terra, consisteva in tre inchini e nove piegamenti con la faccia completamente a terra, obbligatori per chiunque fosse ammesso alla presenza dell’imperatore.
Tre inchini e nove piegamenti con la faccia completamente a terra: probabilmente l’ambasciatore Macartney non si sottopose
Passato l’isolamento Covid, Pechino è ridiventata in queste settimane meta di un intensissimo andirivieni alla corte dell’imperatore Xi Jinping. A stretto giro, ci sono andati la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il presidente francese Macron, il brasiliano Lula, il ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock. Erano stati preceduti dal cancelliere tedesco Olaf Scholz, dal premier spagnolo Pedro Sanchez, dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel. C’erano stati Putin, i ministri degli Esteri di Iran e Arabia saudita, persino una delegazione di talebani (l’Afghanistan confina con la Cina). Mancano, al momento, solo il leader indiano Modi e il Papa. Von der Leyen ha detto che piuttosto che decoupling (separazione, disaccoppiamento delle economie occidentali dalla Cina, idea che va per la maggiore in America), bisognerebbe praticare un derisking, una riduzione dei rischi. Macron ha suscitato un putiferio con la sua presa di distanza dalla politica Usa. ““La trappola, per noi europei, sarebbe quella di ritrovarci invischiati in crisi che non sono le nostre [leggi Taiwan]. In un mondo segnato dal duopolio tra Stati Uniti e Cina, noi non avremmo né il tempo né i mezzi per finanziare la nostra autonomia strategica, e finiremmo per diventare vassalli […]”, ha detto, intervistato sul volo di ritorno. Anche Lula ha preso le distanze dalla politica Usa: “Gli Stati uniti devono smettere di incoraggiare la guerra e iniziare a parlare di pace”; ha parlato di “interessi politici comuni” tra Cina e Brasile: ha invitato “a costruire una nuova geopolitica che modifichi la governance mondiale”. Insomma, hanno tutti, più o meno fatto il koutou. Che oggi ovviamente non è più prostrarsi a terra, ma una deferenza politica, prendere qualche distanza dagli Stati uniti, andare incontro alla Cina. Hanno tutti riportato a casa qualcosa. Ma anche una coda di recriminazioni. Washington non può certo rimproverargli di fare affari con la Cina. Loro ne fanno più di tutti gli altri messi insieme. Gli Usa registrano anche quest’anno, malgrado le frizioni, un record assoluto di interscambio con la Cina. Ma gli rimproverano il koutou.
Mancano, all’appello di Xi Jinping, solo Modi e il Papa. E Washington non può rimproverare gli alleati di fare affari con la Cina
Charles De Gaulle aveva irritato a morte gli Stati Uniti quando nel 1964 fu il primo a riconoscere la Cina di Mao. La Francia era uscita dal comando Nato. De Gaulle aveva ragione, ma aveva corso il rischio di anticipare troppo i tempi. Nenni, divenuto ministro degli Esteri nel governo Moro, avrebbe proposto il riconoscimento della Cina nel 1969. Washington non glielo perdonò. Ma avevano ragione Nenni e Moro. Nixon, smentendo tutta la politica precedente, andò con Kissinger a incontrare Mao in Cina nel febbraio 1972. Fece all’arcinemico altro che un koutou. La guerra in Vietnam non era ancora finita.
Ma torniamo ai koutou antichi. Quando a Londra inviarono Macartney sapevano benissimo che era un prerequisito. Ed erano ben disposti a non farne un caso di puntiglio. La Compagnia delle Indie orientali, il potentissimo monopolio privato che era la vera commissionaria dell’ambasceria, aveva fatto avere a Lord Macartney una lunga e precisa “lettera di istruzioni”. Gli interessava il commercio e solo il commercio. “Benché il proposito dichiarato e ostensibile dell’ambasciata sia la conciliazione [con la Cina] auspichiamo che si trovi la maniera di procurare privilegi e vantaggi sostanziali per la Compagnia”. Un po’ come se la lista della spesa per il segretario di Stato di Biden in Cina fosse compilata dai settori economici e dai monopoli privati interessati ai propri affari. Le istruzioni della Corona erano un pochino più ambigue: “Procurarsi un’udienza al più presto possibile dopo l’arrivo. Conformarsi a tutti i cerimoniali che non ledano l’onore del Nostro sovrano o non diminuiscano la vostra dignità [in quanto rappresentante del Re d’Inghilterra]. Ma nel fare questa riserva siamo certi che Lei che sarà abbastanza prudente e sensato da non lasciare che questioni di puntiglio ostacolino gli importanti benefici che possono essere ottenuti grazie a una favorevole disposizione dell’imperatore e dei suoi ministri”.
Macartney aveva deciso di non prostrarsi. Al massimo avrebbe accettato di inginocchiarsi, ma su un ginocchio solo. Alcune testimonianze, soprattutto quelle di parte cinese, differiscono: pare il kotou alla fine l’abbia fatto. Ma fu ugualmente trattato malissimo. Era giunto a Pechino via terra, dopo essere sbarcato a Tianjin. A compiere il viaggio per mare ci aveva messo quasi un anno. Lo dirottarono a Jehol, in Manciuria, dove l’imperatore aveva la residenza estiva. Fu uno dei punti più bassi nella storia dei rapporti tra Cina e Occidente. L’opinione pubblica inglese era furibonda. Tutti ce l’avevano con la Cina. Le vignette sull’umiliazione subita da Macartney dipingevano una Cina odiosa e dispotica. Invitavano all’ostilità e a vendette sanguinose. Sembra il consensus anticinese dei giorni nostri.
Fatto sta che la questione non era il koutou. Tra il 1520 e il 1840 ci furono 33 missioni europee in Cina. In 19 accettarono di fare il koutou. A sei l’udienza fu rifiutata, probabilmente perché erano privi delle giuste credenziali. Uno fu imprigionato e poi espulso. Quattro non riuscirono neppure a giungere nella capitale. Solo due furono ricevuti senza koutou. Portoghesi e olandesi accettarono sia di fare il koutou sia lo stato di portatori di tributo. Del resto non gli interessava la politica, solo il commercio. Rappresentavano le rispettive compagnie, oggi si direbbe multinazionali. Tra chi nicchiò ci furono i Russi. Nel 1676 l’inviato dello Zar, Nikolai G. Spathari, si era inchinato tre volte entrando nel palazzo, e solo una volta di fronte all’imperatore. Fu congedato in malo modo, senza risposta ufficiale allo Zar. L’imperatore Kangxi notò che la Russia contava poco, aveva un interscambio molto limitato con la Cina, e i russi comunque non arrivavano a capire l’etichetta cinese.
La Cina, che si considerava unica grande potenza, ebbe sempre difficoltà a capirsi con chi aveva ambizioni al di là del commercio
Con tutti quelli che avevano ambizioni al di là del commercio la Cina ebbe sempre molta difficoltà a capirsi. L’imperatore ricambiava i “tributi” con benefici anche superiori a quelli ricevuti, ma doveva essere chiaro che si trattava di scambi non alla pari ma tra una grande potenza, anzi l’unica grande potenza sulla faccia della terra, l’Impero di mezzo, e potenze di grado inferiore. C’erano interpreti di grandissimo livello. La sinologa di Oxford Henrietta Harrison ha dedicato uno studio a Li Zibiao e Thomas Staunton, gli interpreti rispettivamente di parte cinese e parte britannica che assistettero all’incontro tra Macartney e l’Imperatore (The Perils of Interpreting. The Extraordinary lives of two translators between Qing China and the British Empire, Princeton 2022).
Non era questione di lingua, bensì di sostanza. Da quel che gli avevano tradotto, Qianlong capì che l’Inghilterra gli chiedeva di ridurre le tariffe doganali, di concedergli due porti, che oltre ai commerci potessero ospitare delle basi militari, e che pretendevano anche la concessione di un’ambasciata permanente. Congedò Maccartney rifiutando i “regali” che gli aveva portato, e con una risposta che agli occhi di Londra sarebbe suonata particolarmente sgarbata: “Per mostrare la vostra devozione [alla mia imperiale persona] avete inviato come offerta dei prodotti del vostro paese. […] La nostra dinastia, che estende i suoi domini in ogni parte del mondo, si preoccupa soltanto di amministrare correttamente gli affari dello stato e non si interessa ad oggetti rari e preziosi. Noi […] riceviamo tributi da tutto il mondo […] produciamo tutto quello che ci può servire […] non apprezziamo oggetti strani e curiosi che sembrano giochi per bambini, non abbiamo bisogno di nulla di quel che viene prodotto nel vostro paese”. Quanto all’ambasciata, ricordava al suo collega, anzi al suo vassallo, il Re d’Inghilterra, che la sua non era l’unica nazione europea a chiedere privilegi commerciali e una rappresentanza in Cina (“l’Europa è fatta da molte altre nazioni, come potremmo dir di sì a tutte?”), e che non era il caso che l’ambasciatore inglese si riducesse a dover vestire alla cinese e a vedere limitata la propria libertà di movimento, come gli altri stranieri residenti a Pechino.
Non si sa nemmeno se questa lettera di risposta sia autentica, se sia stata dettata dall’imperatore o sia una pensata di qualche funzionario troppo zelante. Fu tirata fuori e pubblicata solo nell’800 da Sir Edmund Backhouse (L’Eremita di Pechino, dal titolo di una brillante biografia a lui dedicata dallo storico di Oxford Hugh Trevor-Roper). Backhouse era uno specialista nel fabbricare documenti cinesi falsi che sembravano più veri di quelli autentici. Così come Trevor-Roper concluse la sua carriera con una disavventura clamorosa per uno storico: autenticando improvvidamente falsi diari di Hitler che puzzavano di bufala da lontano un miglio. Da altri documenti di Corte studiati di recente risulta che Qianlong non era così sprovveduto come appare, che era assolutamente cosciente della superiorità militare britannica ed occidentale, e del pericolo che questa rappresentava per il suo impero. Pare che non disprezzasse più di tanto nemmeno i “regali”, o “tributi” come preferivano chiamarli i cinesi. Avrebbe passato giorni a studiare, assieme ai suoi esperti, il modellino dell’ammiraglia della flotta britannica, coi suoi 110 cannoni.
Congedato Macartney, Qianlong si affrettò a diramare ai suoi ministri l’ordine di rafforzare le difese costiere e di fare ben attenzione a non provocare le navi da guerra britanniche: “L’Inghilterra è molto più forte e feroce degli altri paesi dell’Oceano occidentale. Siccome le cose non sono andate nel senso da loro desiderato, potrebbero creare problemi”. L’Inghilterra aveva da poco perso le sue colonie americane, si sarebbe presto trovata a che fare con la Rivoluzione in Francia e la minaccia delle guerre napoleoniche. Aveva ben altre gatte da pelare. Gliel’avrebbe fatta pagare alla Cina, ma con comodo.
La tradizione pacifica della Cina è un mito, gli illuminati Ming si impadronirono del Vietnam. Ma sempre meglio di un mito guerresco
“C’eravamo tanto amati e tanto odiati”: Così è intitolato un capitolo del mio recente Colazione a Pechino in cui si parla dei corsi e ricorsi nei giudizi degli occidentali sulla Cina, della continua oscillazione tra ammirazione e disprezzo, grandi amori e grandi paure. Si va, da secoli, a cicli alternati. Il momento è ora di grandi paure e grandi diffidenze reciproche. Il guaio è che non sono campate in aria. Sia Cina che Stati Uniti temono di essere sotto tiro malevolo. Sono prigionieri del rispettivo “eccezionalismo”. Cioè dell’idea di essere diversi e migliori di tutti. C’è stato un cambiamento quasi epocale dal 2000 ad oggi. Nella politica cinese, ma anche in quella americana. Allora la Cina proclamava che “la cultura cinese è pacifica”. Ora ci si deve preparare anche alla guerra. Si insisteva sulla soluzione pacifica, per evoluzione naturale, della questione di Taiwan, con lo stesso metodo (una sola nazione, due sistemi) usato per Hong Kong. Si contrapponeva la natura tradizionalmente pacifica (in realtà non sempre così pacifica) dell’espansionismo cinese a quella aggressiva dell’imperialismo occidentale. Si rassicurava, citando antiche tradizioni, che la Cina era in grado di prendere le distanze dal “modello tradizionale per cui una potenza in ascesa dovrebbe per forza andare in cerca dell’egemonia”. Era un po’ una forzatura. Lo studioso della Michigan University originario di Taiwan, Yuan-kang Wang ha dimostrato nel suo saggio su The Myth of Chinese Exceptionalism: A Historical Perspective on China’s Rise che non era proprio così. Anche gli illuminati Ming si erano impadroniti del Vietnam, si alleavano con i mongoli più lontani per tenere a bada i mongoli più vicini e mandavano le flotte del grande eunuco Zheng He a liberare i mari dai pirati e a sottomettere, “per il bene e la sicurezza di tutti”, i tributari riottosi. Ma meglio i miti pacifici che i miti guerreschi.
Sulla sponda opposta, al mito della Cina “felice”, campione della globalizzazione, dello sviluppo, della stabilità dell’economia mondiale è subentrato quello della Cina aggressiva, concorrente scorretta, invasiva, affamata di materie prime, colonialista dell’Africa e dell’America latina, che ci spia tutti attraverso TikTok e i nostri cellulari, minacciosa verso tutti e tutto, amica di tutti i peggiori regimi del mondo, da “fermare” ad ogni costo. Quanto al dispotismo cinese, certo non è un mito, ma l’idea di imporre alla Cina la democrazia a martellate è peggio che un mito: una pericolosa idiozia. In un intervento su Foreign Affairs, di poco successivo all’ascesa di Joe Biden, lealmente supportato dopo la nomination, l’ex rivale democratico Bernie Sanders aveva messo in guardia contro il nuovo pericoloso consensus, l’opinione dominante, ampiamente condivisa dai democratici come dai repubblicani a Washington, e dalla stampa in quasi tutto il mondo, circa il “pericolo Cina”. E aveva rivolto un appello accorato a “non cominciare una nuova guerra fredda”. Non sarebbe ora di demolire il nuovo consensus strisciante per cui sarebbe pensabile addirittura una guerra calda, magari con le democrazie da una parte e tutti i dispotismi dall’altra?