L'eros perduto
Il mondo distopico di Margaret Atwood, una storia di maternità surrogata
"Il racconto dell'ancella" è andato in scena al Teatro Basilica di Roma. Un universo freddo e senza passione, che ripropone e interroga le tematiche più urgenti dell'amore contemporaneo
C’è una voce che ci parla. Dice: “A voi”, e inizia a raccontare, a noi. È una storia di donne fattrici e uteri oppressi. Più che in affitto, spadroneggiati. La voce è quella di June alias Difred, donna inventata dalla scrittrice canadese Margaret Atwood ne Il racconto dell’ancella (1985), romanzo distopico e cult della letteratura femminista. Dopo la serie Netflix del 2017, l’ancella è ricomparsa in scena a Roma, al Teatro Basilica di piazza San Giovanni in Laterano, con la superba interpretazione di Viola Graziosi. Graziano Piazza e Loredana Lipperini firmano regia e adattamento teatrale del racconto che ha ispirato i costumi delle rivolte femministe in Alabama, Argentina, Italia. Ed ecco Viola Graziosi cingersi anche lei di tunica rossa e treccia raccolta in una cuffia bianca: è l’abito dell’ancella, June, paramento di lotta per le attiviste abortiste nel mondo.
La vicenda dell’Ancella è celebre. In un futuro prossimo il mondo è colpito da guerre e crisi climatiche, e la cattiva salute della Terra intacca la fertilità dell’uomo. Nel romanzo e nel testo in scena il nemico è un gruppo di fanatici veterotestamentari. Fondamentalisti che prendono il potere e riorganizzano la società in un regime, “Gilead”, dove le ancelle – le pochissime giovani ancora fertili – sono asservite alla casta apicale ma sterile. Nella distopia di Atwood lo scandalo è il cerimoniale d’accoppiamento schiavista: mentre l’uomo tenta di fecondare l’ancella, la moglie l’afferra per i polsi. A formare in tre una carne sola. In un raffinato stupro assistito che pone oggi un tema. Tra uteri spadroneggiati e affittati c’è ancora uno scarto, certo. Eppure, come nel Racconto non si sa bene chi sia la madre, se la schiavista o la schiava, così oggi – fra donatrici, gestanti, medici e acquirenti – non lo sappiamo noi. Il mondo di Atwood è un mondo freddo, senza passione. Il nostro gronda amore universale. Amore in nome del quale tutti possono fare figli.
L’accostamento fra l’ancella di Atwood e le surrogate può apparire ardito, ma non siamo noi a farlo. È la voce del racconto che parla “a noi”. E dunque a questo mondo. La realtà è più confusa della perfetta tirannia del Racconto. L’utero dell’ancella è oppresso in una cornice apocalittica e teocratica. Qui è diverso: noi non abbiamo schiave. Siamo più sottili, abbiamo semi-schiave (una gravidanza per altri è un contrattino precario di nove mesi, per un compenso medio di 25 mila dollari). E non abbiamo una tirannia ma un ricatto morale: quello di chi per amore di figli immaginari – talvolta per “invidia dell’utero” – ribattezza la semi-schiava in “gestante per altri”. E non spadroneggia, ma affitta. Non è così un caso che la voce dal palco si rivolga “a noi”. Che c’incastriamo in tiritere su gravidanze impossibili. E quasi pensiamo che una madre per conto terzi (semi-ancella) sia – oltre che strumento di un bene supremo – quasi un distintivo. O per così dire un elemento castale, un fatto di status. Come l’ancella a Gilead era privilegio dei “comandanti” – vertice della piramide sociale – così la “gestante” è solo per chi può e per chi sa amare. Universalmente.
Ma, a proposito di amore universale, anche nel “Racconto della surrogata” – e cioè anche qui, nel nostro mondo – in nome di quest’afflato, a ben vedere finisce che di amore non ce n’è più. Finisce insomma che si fanno figli con l’apporto di molte persone, molte donne. Tutti padri e madri, come nelle utopie comuniste. Ma non per effetto di eros. Piuttosto a seguito di neoalchimie, con donne-calderoni dove rimestare gameti di proprietari sconosciuti. L’Ancella ci racconta di un mondo che non esiste. Ma siamo sicuri che con l’amore universale, i figli a tutti i costi, gli omo-patriarchi e le semi-schiave, una nuova Atwood non possa un giorno scriverci “Il racconto della surrogata”?