scrittori e demoni
Il diavolo di Thomas Mann
C’è un patto sulfureo dietro i romanzi del Mago tedesco, e lo ha pagato anche la sua famiglia. Una vita tormentata raccontata da Colm Tóibín
Quando, all’apice della sua carriera, Eduardo de Filippo fu premiato a Taormina, spiazzò tutta la platea con una confessione spaventosa. La sua voce inconfondibile, tremolante, si fece grido, come per una verità troppo a lungo trattenuta. “Questo teatro lo conosco; ci sono venuto tanti anni fa, ma non è oggi come allora. Oggi questo teatro deve diventare il trono dell’arte. L’abbiamo inaugurato noi, con le nostre forze, con i nostri sacrifici, perché fare teatro sul serio significa sacrificare una vita. Sono cresciuti i figli ed io non me ne sono accorto. Meno male che mio figlio è cresciuto bene. Questo è il dono più grosso, più importante che ho avuto dalla natura. Senza mio figlio, forse, io me ne sarei andato all’altro mondo tanti anni fa. Scusate se faccio questo discorso e parlo di mio figlio. Non ne ho mai parlato. Si è presentato da sé, è venuto dalla gavetta, dal niente, sotto il gelo delle mie abitudini teatrali. Quando sono in palcoscenico a provare, quando ero in palcoscenico a recitare, è stata tutta una vita di sacrifici. E di gelo. Così si fa il Teatro. Così ho fatto!”. Per lontano che possa sembrare il gran teatro del Mezzogiorno di Filumena e Cupiello dalle brume di Lubecca o del sanatorio di Davos, a trapelare dalle parole ferite e austere di Eduardo era la medesima rivelazione che il Demonio confidava all’Adrian Leverkühn di Thomas Mann, nel Doktor Faustus: “Ti vogliamo così freddo che le fiamme della produzione non possano bastare a scaldarti per roventi che siano. Cercherai in esse rifugio dal gelo della tua vita”. Nella parabola dell’artista supremo e autodistruttivo, che otteneva la febbre pura della creazione a prezzo d’una vita raggelata e sterile, convergeva una tensione che risaliva molto addietro, nella vita e nelle opere del premio Nobel tedesco, gran padre della letteratura novecentesca, vate e sacerdote civile. Un patto oscuro che pone sfide all’arte e alla scrittura anche oggi.
“Oggi ho incontrato Dio”, così annota Susan Sontag adolescente nel suo diario, dopo aver incontrato l’Imperatore del Romanzo, nei suoi anni di esilio e viaggi, in America. “Dove sono io, lì è la Germania” aveva dichiarato Mann in fuga dal nazismo che bollava la sua arte come degenerata. Era stato un processo difficile quello che lo aveva portato da testimone sommo in letteratura dei fermenti oscuri di Nietzsche e Freud, dalle Confessioni di un impolitico in cui difendeva le ragioni delle pulsioni ctonie, del sangue e del suolo agli interventi radiofonici contro Hitler e le sue cerimonie pagane alla luce della fiaccole e all’apologia della democrazia occidentale e umanistica. Basta aprire La Montagna magica, cercare le schermaglie tra il progressista Settembrini e il teocratico Naphta, per accorgerci che siamo ancora inchiodati lì, nel contrasto tra le promesse dell’acqua, l’abolizione di ogni confine in nome di mitologie universali e la sicurezza oscura e feroce della terra. Riformisti e sovranisti, filippiche contro l’oscurantismo reazionario da una parte o la plutocrazia liberale dall’altra, hanno già ottenuto voci che fanno sembrare i nostri attuali dibattiti solo echi sbiaditi seppure altrettanto violenti e impattanti.
La rivelazione del Demonio nel “Doktor Faustus”:“Ti vogliamo così freddo che le fiamme della produzione non possano bastare a scaldarti”
Tale sconvolgente chiarezza di visione ed espressione era stata ottenuta però al prezzo di una postura personale, con l’erigersi di un monumento augusto, quello dell’“autore per eccellenza”, nella cui prosa si esprimesse tutta la tradizione europea. Una statua che si impose sull’uomo vivo, singolo, ed ebbe ripercussioni tragiche sulla sua vita personale e quella di chi gli stava intorno. La famiglia Mann, come ha raccontato il biografo Tilmann Lahme, era già assediata da nevrosi e suicidi, tentativi di fughe e repressioni. Thomas decise di celare e incanalare i propri desideri più autentici, a partire dall’omosessualità sempre combattuta in nome della rispettabilità borghese, nella costruzione di un mondo narrativo e un’immagine pubblica e privata dello scrittore medesimo, attorno a cui tutto doveva ruotare. Come nei ritratti delle conversazioni di famiglia del ’700, ciò trovava la sua traduzione contemporanea nell’immagine del patriarca coi suoi rispettabili baffi di mezz’età che ogni sera imponeva alla famiglia radunata di ascoltare i nuovi capitoli delle opere cui aveva lavorato nel silenzio rispettoso d’una casa-palazzo-chiesa. Un’immagine terrificante, come commentò Roberto Calasso. Il romanzo più angosciante di Mann è quello sempre scritto e mai scritto della sua stessa vita. Lui è il Goethe assurto alla calma olimpica di Carlotta a Weimar e Tonio Kröger con la sua invidia dolorosa per la placidità delle esistenze borghesi, ma anche Cipolla, il mago cialtrone e seduttivo che ipnotizza la folla a Forte dei Marmi coi suoi denti marci, e soprattutto l’Aschenbach di Morte a Venezia che insegue la bellezza elusiva d’un giovanetto polacco mentre il trucco gli si disfa su cipria e capelli tinti, insidiato nel cuore della notte dal ritmo forsennato e libero di baccanali che fanno a pezzi tutta la sua compostezza e rigidità morale: “E i forsennati urlavano quel loro grido fatto di consonanti dolci, con l’uuuh prolungata alla fine, dolce e selvaggio insieme, mai sentito. Qui esso saliva nell’aria come il gemito di un uccello, e là veniva ripetuto da mille voci con accenti di libidinoso trionfo, eccitando alla danza, allo scuotimento delle membra, e non taceva mai”. Il passaggio immediatamente a seguire è anche una biografia in sintesi del suo autore: “Grande era la sua ripugnanza, grande il suo terrore, sincera la sua volontà di difendere fino all’ultimo ciò che era suo contro l’estraneo, contro il nemico dello spirito fermo e dignitoso. Ma il clamore, l’urlio moltiplicato dall’eco delle pareti rocciose crescevano, trionfavano, si gonfiavano fino a una trascinante follia”.
I desideri più autentici, nascosti e incanalati nella costruzione di un mondo narrativo e di un’immagine attorno a cui tutto doveva ruotare
Il contrasto tra forma e vita, tra la tensione a raggiungere un equilibrio e un perfetto controllo e la consapevolezza che non c’è vera conoscenza, e vera espressività, che non passi dalla possessione e dalla lacerazione di ogni ordine morale ed estetico, avrebbero continuato a percorrere e infiammare la sua vita. Su questo segreto tormento si basa Il Mago (Einaudi), romanzo dell’irlandese Colm Tóibín, che si era già dedicato a narrare i riserbi e frustrazioni del suo amato Henry James, con ricchezza di dettagli sottili e una non sempre commendevole tensione al pettegolezzo. Altre sue opere significative sono state le vite immaginarie di personaggi noti e al tempo stesso marginalizzati dalla storia ufficiale, come Maria madre di Gesù o Clitennestra. Anche in questo caso si trattava di esprimere la dialettica tra la rigidità delle culture nordiche e l’allentamento dei sensi e della psiche suscitato dal Mediterraneo, dinamica cui non è stato esente Tóibín stesso nel suo trasferirsi dall’Irlanda alla Spagna. Nel raccontare dunque “il tedesco più rispettabile del suo tempo, padre di sei figli” Tóibín ripropone appunto il contrasto tra acqua e terra, Nord e Sud, abbandono e controllo. Il linguaggio senza parole della musica, dove la massima astrazione permette di riconnettersi coi sentimenti più indicibili, la perpetua capacità di Thomas Mann di “fingere”, ossia al tempo stesso di fissare la vita in una forma narrativa, tanto più intensa quanto obliqua, e dissimulare. “Quando gli parlavano aveva l’abitudine di distogliere lo sguardo, come se le loro parole andassero ponderate, dopodiché, mentre aspettavano una risposta, fissava con trasporto nel vuoto”. Dall’amore per il compagno Armin, la grande tragedia della sua vita, prima e fondamentale ispirazione e trauma, alla comprensione e ironia della moglie Katia.
Tóibín segue la coppia mentre progetta la propria nuova dimora di esuli antinazisti, tra tutti i luoghi possibili, nelle colline assolate della California. “‘Il nostro architetto ha una vita interiore misteriosa, – disse Katia – e questo può essere solo un bene’. Thomas e Katia giravano intorno alle fondamenta insieme a Davidson, immaginando la casa che sarebbe sorta. Thomas sognava il suo studio, dove mettere la scrivania e le librerie. Si accorse che Davidson vestiva benissimo e fu tentato di fargli chiedere da Katia da chi si serviva. Invece gli ricordò che nel suo studio non voleva finestre a tutta altezza. ‘Voglio ombre – disse – non voglio guardare fuori’. Mimò uno che scrive seduto alla scrivania”. I figli, dotati, brillanti, tormentati, si torcono sotto il peso di un genitore così imponente, che impone a tutti i suoi rituali di esorcismo. “‘Non mi piacciono i segreti, e nemmeno le bugie’, disse Monika. ‘Magari meno li riveli o li diffondi, meno ti dispiaceranno’, ribatté Thomas. ‘Vuoi che stiamo zitti e buoni mentre scrivi i tuoi libri?’ chiese Golo. Il tono era sarcastico, ai limiti dell’aggressivo”.
Un giovane e malizioso Wystan Auden butta lì una stilettata a un ricevimento nuziale: “Per uno scrittore i figli sono motivo d’imbarazzo. Dev’essere come se i personaggi di un tuo romanzo prendessero vita”. I rampolli del vate si rifugiano nelle droghe, negli amori bisessuali, nel tentativo affannoso di esprimersi. “A Thomas venne fatto di pensare che per Klaus scrivere era un’operazione avvilente rispetto all’entusiasmo che gli dava fare altre cose. Klaus amava le gite in compagnia, le feste, le persone nuove, le occasioni per viaggiare. Non era naturalmente attratto da quel luogo difficile e recondito dove il richiamo verso la luce avviene per un processo simile all’alchimia. Lui era uno che scriveva in fretta. Nonostante il talento Klaus, a parere di Thomas, non era un artista. Si domandò come avrebbe vissuto suo figlio crescendo, che cosa avrebbe fatto”. La risposta è che si sarebbe suicidato. La vita dello scrittore ne emerge come un lungo tunnel di silenzi che oscilla tra una stabilità inseguita con rigore e un segreto horreur du domicile, scandita dal ritorno costante di giovani uomini che rimettono in discussione tutto e niente, che ispirano con la loro mera presenza effusioni fugaci, nei cui occhi, mani e capelli aleggia il dono della vita, “offerto dalle Ninfe” come già nel frammento di Eschilo e poi, ovviamente, in Nabokov. “Più tardi, quando Katia era andata in camera sua, gli aveva chiesto se fosse successo qualcosa. Niente di speciale, le aveva detto lui, aveva solo notato un cameriere che gli ricordava la vecchia Baviera”.
“Klaus, a parere di Thomas, non era un artista. Si domandò come avrebbe vissuto suo figlio crescendo”. Si sarebbe suicidato
Quello di Tóibín è un tentativo ambizioso, che tuttavia come effetto complessivo risulta talvolta meno convincente del vuoto che cerca di riempire o palesare. E’ certamente un’operazione difficile, sbirciare in un patto stipulato col Diavolo. E i romanzi di Mann sono i frutti di questo contratto, stretto con un Satana non proiettato verso il futuro con l’illuministica levità del Mefistofele di Goethe o con quello ridicolo e sinistro delle allucinazioni di Dostoevskij, che vorrebbe tanto unirsi al coro degli angioletti ma sa che, senza la sua contraddizione, non ci sarebbe storia. Quello di Mann, che finalmente si presenta sul proscenio nel Doktor Faustus, è uno spaventoso, cerebrale Demonio “a posteriori”, consapevole che ogni espressione umana anela alla contemplazione dell’opera d’arte riuscita, “l’ispirazione, l’autentica, antica e originaria esaltazione dello spirito, l’esaltazione non indebolita dalla critica, dalla paralizzante avvedutezza”, eppure quella stessa arte, così commovente, capace di ispirare nobiltà e commozione, si fonda sempre su qualche sacrilegio, sulla rottura di totem e taboo. Questo il Demonio lo sa. Ed è questo che proprio e solo il commercio col male e la corruzione consente: “slanci, illuminazioni, stati di elevazione e sfrenatezza, libertà, sicurezza, leggerezza, sensazioni di potenza e trionfo tali che il nostro uomo non crede ai propri sensi; in aggiunta a tutto questo ci mettiamo pure la colossale ammirazione per ciò che ha realizzato, un’ammirazione di sé che potrebbe farlo rinunciare facilmente a quella degli altri, a quella del mondo: è il brivido del culto di sé, il delizioso orrore di se stesso, sotto il cui effetto lui si sente come l’ancia di uno strumento baciato dalla grazia, come una bestia divina”.
Ma la migliore biografia di Mann resta “Morte a Venezia” di Luchino Visconti, per una serie infinita di dettagli, rimandi, echi
Non solo, con finezza ancora una volta mai ottenuta prima, per bocca di Lucifero Thomas Mann stesso dà voce a un quesito che avrebbe occupato tutto il ’900, e continua ad affiorare ancora oggi, nella decostruzione dei linguaggi tradizionali che tuttavia restano debitori, come altrettante vedove, di quanto è già stato conquistato e fissato nel passato: “Se la creazione non tollera più l’autenticità, com’è possibile lavorare? Tuttavia le cose stanno proprio così, amico mio, il capolavoro, l’immagine compiuta in se stessa, appartiene all’arte tradizionale, mentre l’arte emancipata la rinnega”. Come riottenere la forza compiuta dell’innocenza e dell’ispirazione nel tempo dell’inautentico, dove persino il contagio dionisiaco, il commercio con l’estasi e la distruzione, sono ormai un monumento canonizzato del romanticismo? Come operare un sacrilegio quando più niente è sacro? Sono alcune delle domande al cuore della scrittura del Ventunesimo secolo. In fondo l’atto critico supremo è sempre un’altra opera d’arte, che rilegge la precedente, la trasforma, la incanala in linguaggi nuovi. Proprio per questo la migliore biografia di Mann resta Morte a Venezia di Luchino Visconti. Per una serie infinita di dettagli, rimandi, echi – basti pensare a Bogarde-Aschenbach che si slaccia il colletto mentre percorre i navigli su un battello, con un sorriso di segreto compiacimento e liberazione – ma più ancora per una intuizione di base, che li abbraccia e supera tutti. Lo stesso protagonista Dirk Bogarde raccontò poi nella sua autobiografia un episodio rivelatore, causato da un inghippo al trucco che avrebbe determinato l’intero film. Nelle intenzioni originarie di Visconti, Aschenbach doveva ricordare fisicamente il musicista Gustav Mahler, ma la protesi del naso aquilino non andava bene. Bogarde doveva presentarsi alla stampa come il personaggio stesso, e lo staff era nel panico. Allora lui ebbe una idea, e si fece applicare semplicemente dei baffi. Fece la sua comparsa in sala, Visconti lo vide e capì. “Signori, ecco a voi Thomas Mann!”, dichiarò trionfante.