La Storia
Quando il Louvre ci rese partecipi della storia della "Terra dell'Oro"
I faraoni neri, altro che Cleopatra politicamente corretta. La culla di grandi dinastie sta fra Egitto e Sudan: la Nubia, antico regno dell’oro che oggi fa gola alla Wagner
"Faraone delle Due Terre" fu una mostra che il Louvre ospitò tra il 28 aprile e il 25 luglio del 2022. C’erano oltre 200 fra oggetti, vasi in terracotta, steli e statue monumentali di granito, statuette in bronzo e oro, preziosi gioielli e corone del tempo di quella XXV dinastia che, a partire dal 720 avanti Cristo, unificò la valle del Nilo e regnò per circa sessant’anni su un territorio che si estendeva dal Delta del fiume fino alla confluenza di Nilo Bianco e Nilo Azzurro. A un anno di distanza, quella mostra torna curiosamente di attualità per via di due eventi che sono venuti quasi in contemporanea, e che in teoria tra di loro non c’entrerebbero niente; ma in realtà sono uniti da un legame con quella storia.
Primo aspetto: quella dinastia veniva da quel Regno di Kush che i geroglifici chiamavano “Terra dell’Oro” per le vene di quarzo aurifero di cui era ricca, e che gli Egizi sfruttarono per secoli. Ma “oro”, in egizio, si diceva “nub”. E la Terra dell’Oro era dunque la Nubia. E la Nubia corrisponde all’attuale Sudan. E in Sudan si è appunto appena accesa una sanguinosa faida tra milizie a proposito del controllo di risorse aurifere. Nel 2012, infatti, l’oro nel paese fu di nuovo trovato, in un’area chiamata Jebel Amir. Solo nel 2022, e in base a sole stime governative, il Sudan ha realizzato esportazioni vicine ai 2,5 miliardi di dollari, corrispondenti alla vendita di 41,8 tonnellate di oro. Circa il 40 per cento delle esportazioni del paese.
Sembrò una compensazione del destino, dopo che nel 2011, in seguito a una lunghissima insurrezione che salvo brevi intervalli era durata in pratica dall’indipendenza del 1956, il Sud Sudan cristiano e animista era diventato indipendente dal nord a maggioranza araba e islamica, portandosi via un export di petrolio che costituiva i due terzi delle entrate. Ma l’oro è stato in gran parte estratto con sistemi poco scrupolosi che hanno portato decine di persone a morire nei crolli di miniere improvvisate, e hanno in più provocato contaminazioni massicce da mercurio e arsenico. E poi, gran parte dell’estrazione è finita in mano alla Rapid Support Force: una milizia responsabile di pesantissime violazioni dei diritti umani e massacri, e che ha tentato di prendere Khartoum con la forza pur di non sciogliersi nell’esercito regolare come previsto dal piano di ritorno al governo civile. Associati alla Rsf sono sia il signore della guerra libico Khalifa Haftar, sia la Wagner. Ci sono miniere davanti alle quali sventola la bandiera ex-sovietica, e secondo la Cnn da lì sono partiti almeno 16 voli per portare a Mosca oro che è stato molto utile alla Banca Centrale Russa per provare a reggere l’urto delle sanzioni.
Secondo aspetto: i faraoni di quella dinastia avevano una cultura fortemente influenzata da quella egizia, ma come tratti etnici erano africani sub-sahariani. Cioè neri. Faraoni neri. E una baraonda si è appena scatenata a proposito di una serie-documentario Netflix su una Cleopatra che non solo è stata interpretata da una afro-americana. E qui in realtà non ci sarebbe nulla di particolarmente scandaloso, rispetto a una Hollywood che da sempre fa rappresentare l’ebreo Gesù, greci e romani da attori con tratti nordici e anglosassoni – ma in compenso nel suo film più famoso sui Vichinghi gli eroi scandinavi li facevano il piemontese-emiliano Ernest Borgnine, l’ebreo bielorusso Kirk Douglas e l’ebreo ungherese Tony Curtis. Per non parlare del tataro lituano Charles Bronson come indiano d’America, messicano e italo-americano; o del russo-svizzero-buriato-rom Yul Brynner come faraone, re del Siam, capo indiano, ufficiale giapponese, russo, capo cosacco, cowboy, rivoluzionario arabo: o del messicano Anthony Quinn, come Zorba il greco, Compare Alfio della “Cavalleria Rusticana”, Stradivari, Attila, Gauguin, Quasimodo, Barabba, Kublai Khan, capo beduino, contadino ciociaro e, ovviamente, pure lui il capo indiano. Ma il punto è che qua nel trailer, accanto a una esperta che ricordava l’origine della regina nella famiglia del generale macedone Tolomeo al servizio di Alessandro Magno, un’altra la contraddice: “Mia madre diceva sempre: non badare a quello che ti raccontano a scuola. Cleopatra era nera”.
Battuta massacrata su YouTube – “mio padre diceva sempre: Cesare in realtà era cinese”; e Netflix ha addirittura dovuto bloccare i commenti. Furibondi in particolare in Grecia e in Egitto, e addirittura un avvocato egiziano ha fatto causa. Quel che succede quando la cancel culture non si limita a un paese pieno di sensi di colpa come gli Stati Uniti, e investe altre culture che non solo sensi di colpa non ne hanno: al contrario, hanno a loro volta risentimenti di vittimismo storico uguale e pure peggio del radicalismo afro-Usa. Ma, appunto, una polemica oltretutto inutile. A voler celebrare il contributo dell’Africa Subsahariana alla culla della civiltà in Egitto, piuttosto che tentare l’annessione di Cleopatra avrebbe contribuito una bella serie su Kush. Non solo quei faraoni neri effettivamente esistiti, ma più in generale una vicenda che durò molto oltre Cleopatra, e arriva fino quasi all’età moderna.
Come ricordava la presentazione della mostra del Louvre, “l’Ottavo secolo a.C. fu un periodo di instabilità e divisione in Egitto. La gloriosa dinastia dei Ramses era finita. Dopo secoli di dominio egiziano, la Nubia ottenne la sua indipendenza e divenne la sede del regno di Kush, un regno profondamente influenzato dall’ideologia faraonica, dall’arte e dalla religione. La sua capitale, Napata, si trovava vicino alla ‘Montagna Pura’ di Jebel Barkal, nella regione della Quarta Cateratta del Nilo, nel cuore del Sudan moderno”. Alta 98 metri e vicina al Nilo, pareti in arenaria rossa col pinnacolo che ricorda un cobra, era considerata il luogo di culto più antico e sacro di tutta la Nubia: per gli Egizi la vera sede di Amon, il dio dalla forma di ariete. Sul Jebel Barkal avveniva la cerimonia di abdicazione dei faraoni che i sacerdoti di Amon ritenevano non adatti al ruolo: una volta in cima, i malcapitati dovevano semplicemente gettarsi dallo strapiombo.
E poi, ricordava sempre il Louvre, “i governanti della regione riunificarono le Due Terre, vale a dire l’Egitto e il regno di Kush. Il re Piankhy partì da Napata per conquistare la valle settentrionale intorno al 720 a.C.; i suoi successori fondarono la 25esima dinastia (kushita) in Egitto e regnò fino al 655 a.C. su un vasto territorio che si estendeva dal delta del Nilo fino alla confluenza del Nilo Bianco e del Nilo Azzurro”.
All’epoca dei faraoni neri gli dei erano ancora zoomorfi, come mostrano le sontuose rappresentazioni in mostra al Louvre: impressionanti teste scolpite di dee-serpente, della dea-avvoltoio o il bronzo che rappresenta un gigantesco Horus con la testa di ibis. Il percorso della mostra terminava con un gruppo di cinque statue nuove di zecca, realizzate con stampante 3D a partire da un insieme di reperti in pietra rinvenuti nel 2003 nel sito archeologico di Doukki Gel, e rappresentanti le effigi distrutte di cinque re di Napata. La Nubia era comunque già ricca di opere egizie, come quel Tempio di Soleb visitato anche da Tutankhamon; un sito famoso anche per la vicina necropoli nubiana. Ma una caratteristica dei sovrani kushiti sono le mini-piramidi. Le tombe, interrate, sono infatti sovrastate da un tempietto con una “piramidina” molto più aguzza di quelle classiche e molto più bassa: al massimo 20 metri contro i 138 (attuali) di quella di Cheope.
“Il sacro suolo dell’Egitto è invaso / dai barbari Etiópi ~ i nostri campi / fur devastati... arse le messi... e baldi / della facil vittoria i predatori / già marciano su Tebe… / Ed osan tanto! / Un guerriero indomabile, feroce, / li conduce ~ Amonasro”, è l’attacco dell’Aida. Opera di fantasia, ma Giuseppe Verdi e il librettista Antonio Ghislanzoni avevano lavorato su un soggetto originale dell’archeologo francese Auguste Mariette: primo direttore del Museo Egizio del Cairo, e considerato il padre dell’Egittologia moderna, assieme al decifratore dei geroglifici Jean-François Champollion. E l’immaginario padre della principessa prigioniera amata da Radamès è chiaramente ispirato ai condottieri realmente esistiti di quel popolo di fieri combattenti e abili arcieri che furono per secoli una spina nel fianco degli Egizi. “Il miserabile Kush” lo definivano pure i geroglifici, e il potente Ramses II se li era addirittura fatti disegnare sotto la suola dei sandali, per poterli calpestare ogni volta che camminava.
Circa due secoli prima di lui, attorno al 1450 a.C. il faraone Thutmosi III aveva iniziato la costruzione di Napata. Due secoli e qualcosa dopo, attorno al 1000 a.C., ci fu a Tebe una rissa teologico-politica per cui il faraone Sheshonq I esautorò un gruppo di sacerdoti che avevano reso ereditaria la carica di Primo Profeta di Amon, trasformando di fatto la regione di Tebe in uno stato teocratico. Questi scapparono allora in esilio al sud e si mescolarono a capi locali, dando inizio a un regno indipendente di Kush i cui sovrani avevano come ricordato tratti sub-sahariani, ma una cultura fortemente egizianizzata. Nel frattempo, le pur respinte invasioni dei Popoli del Mare avevano fatto collassare il Nuovo Regno della XX dinastia, favorendo appunto un clima di caos in cui alle lotte tra potere temporale e potere religioso si sovrappongono le risse tra poteri locali e le spinte dalla frontiere degli invasori assiri, libici e nubiani. Dopo quattro dinastie dei cui faraoni sono restati poco più dei nomi fuggevolmente annotati nelle liste sacerdotali, infine il clero di Tebe decise che, dopotutto, i pur scuri di pelle, ma egizianizzati sovrani di Kush potevano essere un male minore, e raggiunsero con i colleghi già esuli di Napata l’accordo in base al quale nel 744 il citato principe Kashta poté insediarsi nella stessa Tebe senza combattere.
Ritratti e statue ce lo mostrano con le labbra e nasi carnosi e i capelli ricci che Cleopatra non ebbe, ma ebbero i suoi successori. Prima, si è ricordato, Piankhy, che conquistò tutto l’Egitto. Poi il di lui fratello Shabaka, che mandò il generale Taharqa, suo ventenne nipote, contro gli assiri. Lo scontro in Palestina e Fenicia contro il biblico Sennacherib fu in realtà inconcludente, ma comunque Taharqa fu riaccolto in patria un po’ come nell’Aida accolgono Radamès, e divenne poi faraone nel 690 a.C., dando vita al periodo più prestigioso della dinastia. Spostò infatti la corte da Napata a Menfi e di nuovo mosse guerra agli Assiri. Ma fu sconfitto da Assurbanipal, e costretto a ritirarsi in Nubia. Quando alla sua morte, nel 664 a.C., in Egitto fu nominato un faraone amico degli Assiri, il nipote di Taharqa, Tanutamani, provò la rivincita. Ma stavolta Assurbanipal distrusse Tebe.
Tanutamani, però, continuò a regnare, anche se sulla sola Nubia. E con grande successo visto che la sua dinastia sopravvisse alla conquista persiana, macedone e romana dell’Egitto, durando quasi mille anni: fino al IV secolo della nostra era, anche se dal 591 a.C. la capitale fu trasferita a Meroe. All’Impero di Meroe il Louvre aveva dedicato un’altra mostra, nel 2010. E Meroe Gold si chiama anche la joint venture tra Rsf e Wagner; farabutti sanguinari, ma filologici. Dopo aver resistito a tanti tentativi di invasione da nord, nel 350 il regno fu infine distrutto dal sud dal’Impero di Axum: antenato dell’Etiopia, che aveva già fatto in tempo ad essere il secondo stato al mondo a convertirsi al cristianesimo dopo l’Armenia. Nel VI secolo anche i nuovi regni in cui si era frammentata la Nubia si convertirono al cristianesimo, e vi rimasero aggrappati dopo la conquista islamica dell’Egitto.
Il più importante tra questi stati cristiano-nubiani era la Makuria, che nel 642 inflisse agli invasori arabi una memorabile disfatta nella battaglia di Dongola. I musulmani si adattarono dunque a stipulare nel 651 un trattato di pace che venne chiamato Bakt, dal latino “pactus”, e che essendo durato 700 anni è considerato il più longevo trattato nella storia. Le due parti si impegnavano a non attaccarsi; ai cittadini delle due nazioni era permesso di viaggiare liberamente per commercio fra i due stati, ma non di immigrare; i fuggiaschi sarebbero stati estradati, come gli schiavi evasi; i Nubiani si facevano carico di mantenere una moschea per i visitatori e residenti musulmani e dovevano inviare in Egitto 360 schiavi all’anno, in cambio di frumento e lenticchie. Vari teologi islamici protestarono, obiettando che la rinuncia espressa a espandere i confini dell’Islam era eresia. Infatti in teoria il Diritto Islamico consente con gli “infedeli” sono una hudna: tregua. Ma i politici risposero di non scocciare, che i nubiani erano ossi durissimi.
Solo dal XIV secolo sui troni nubiani iniziarono a collocarsi sovrani musulmani, con l’aiuto degli egiziani. E solo nel XVI secolo la civiltà nubiana collassò, in seguito all’invasione dei fung: una popolazione nera islamizzata, che incoraggiò l’immigrazione di arabi dalla stessa Penisola arabica, dall’Egitto e dal Marocco. Nel frattempo, Cristoforo Colombo era ormai arrivato in America. Quell’America da cui la cultura woke pretende di annettersi Cleopatra, per non dover fare la fatica di imparare l’epopea vera di Kush, Meroe e Makuria.
Universalismo individualistico