l'intervista
“Amore e letteratura vivono di scorrettezze”, parola dello scrittore Luca Ricci
Il perbenismo dell’autofiction raccontato dall’autore dei “Primaverili”, che chiude il suo polittico di romanzi sulle stagioni, le relazioni e la scrittura
"I cliché sono sacri. I luoghi comuni ci aiutano a proiettarci nel tempo che è inquietante, una oscura chioma. Le stagioni sono un tentativo di Madre Natura in primis di curvare il tempo e non farci ricordare che il nostro orizzonte è quello della bara. Ci illudiamo perché ogni anno sembrano tornare le stesse cose. I cliché vanno rispettati proprio perché sono una sovrastruttura non umana”. Luca Ricci risponde così alla domanda se il suo polittico sulle stagioni, l’amore e la scrittura, che si chiude col quarto romanzo “I Primaverili” (La Nave di Teseo), omaggi il suo amato Maupassant quando raccontava le gran dame parigine che esprimevano “le loro preferenze sulle stagioni con tutte le banali considerazioni che vagano per i cervelli come la polvere negli appartamenti”.
Il ciclo di Ricci, dove la forma romanzesca attinge alle ellissi del racconto, si chiude significativamente con la crudeltà della stagione che rimette in moto le nostre attese e frustrazioni, amorose ed espressive, come “Love” di Noé che terminava col primo appuntamento di una relazione che già sappiamo destinata a sfracellarsi. La narrazione dei quattro volumi ha compreso punti di vista diversi, terzetti, diari, affondi lirici, spesso sullo sfondo di una Roma che sopravvive a tutto perché sempre sul punto di morire, così come omaggi a Bukowski, Flaiano, al cinema di Godard e alla commedia all’italiana. Nel rito di meta-rappresentazione collettiva della comunicazione di massa si è tutti autori, lettori e personaggi, come nelle corti rinascimentali da cui i poeti volevano fuggire in uno spazio altro. Adesso la corte stessa pare non avere più confini. La morte di fama – scrisse Lipperini – fagocita la morte di fame, si tratti di autentiche rivendicazioni sociali o dei nostri nodi emotivi più intensi.
Dentro quest’unica nebulosa narrazione collettiva, che smangia i confini, Ricci cosa teme o da cosa è infastidito di più? Che le persone abbiano bisogno di essere “viste” più che essere effettivamente scopate, o che agli autori importi più d’essere dichiarati tali che effettivamente letti? “Ci sono periodi più critici di altri e questo è un tempo apocalittico, soprattutto per quei nerd della Silicon Valley che hanno cambiato il paradigma della comunicazione e delle relazioni. Un libro vale solo per la comunicazione che ne viene fatta, e lo stesso succede per l’amore. Non gliene frega niente a nessuno di leggere, le opere servono per l’autofiction, che già facciamo nei social, un discorso di regime, ultimamente distopico, mentre la letteratura sposa sempre la causa minoritaria e così rompe i coglioni. Ma il potere adesso siamo noi stessi che veicoliamo un io migliore e peggiore di quello effettivo. Il quarto d’ora di celebrità dovrebbe rovesciarsi in un quarto d’ora di oblio”.
Nella morsa a tenaglia, anche solo in Italia, di supposti “primati nazionali” culturali, spesso pacchiani e rozzi, e perbenismi progressisti, l’arte e l’esperienza umana autentica sono davvero sotto attacco di censure vecchie e nuove? “Amore e letteratura vivono di scorrettezze. In un corpo a corpo chi può distinguere carnefice e vittima, sincerità e manipolazione? Fuori da questo tentativo sono tutti ingessati, e dicono pure cose condivisibili da un punto di vista civico ma che non si possono pretendere dall’arte. Tutta la letteratura è fatta di esilio, autoesilio, autosabotaggio. Io sono stato attaccato perché un marito nella mia narrativa non desidera più la moglie e parla della sua cellulite. Se mi si toglie questo abc che è l’avvio di qualsiasi cosa, io sono fottuto, e lo siete anche voi”.
Tenendo molti corsi di scrittura, ci sono dei nuovi errori di base, condivisi oggi dagli esordienti? “All’ingresso c’è un livello di avvedutezza abbastanza alto, non ho registrato una qualche conformità che prima non ci fosse. Ma la scrittura resta sempre una conseguenza del pensiero. Su questo si può lavorare, certo, ma la testa me la devi portare tu. Gli scrittori ai quali torniamo sono proprio quelle voci di cui la storia costituisce solo un livello. Come fa Kafka a raccontare l’America senza esserci mai stato? E invece ce la fa. Questa distinzione non è una cazzata, ci sono autori, pure acclamati, che hanno solo le loro storie, e finita quelle è finito lo scrittore. La grande letteratura inizia quando finisci di leggerlo, un libro”.
Al netto di tutto, viviamo ancora in una società post-romantica, cerchiamo comunque d’imporre un’illusione, una linearità narrativa al mondo? “Siamo romantici avvertiti, circospetti, già da Agostino a Maupassant. Il punto è che non devi persuadere di un cazzo. Per molto tempo sono stato turbato non dall’amore ma dalla forma-matrimonio, che è un contratto, un’imposizione. Tutto questo molto prima di contrarre io stesso il matrimonio. E comunque, oltre all’opzione Dante, alla sua freccia drammatica dalla selva oscura a Dio passando da Beatrice-morta – e al disco rotto, al singhiozzo sublime e ossessivo dell’opzione Petrarca – c’è sempre da ricordare la sacrosanta opzione Angiolieri: donne, dadi e vino, eh”.