Oggi ammiro Murgia e mi spiace pensare che me l'ero persa
Tra di noi una lontananza estrema, culturale e ideologica. Ma da come sta mettendo in scena la propria morte, la distanza si accorcia. Vuole avere il tempo per distribuire a sé stessa e agli altri i pani e i pesci del miracolo della vita umana: un atteggiamento raro e prezioso
Michela Murgia me l’ero persa. Persa in una lontananza estrema, estranea, culturale politica e ideologica. Da come sta mettendo in scena la propria morte, con la scrittura di un libro di racconti e l’oralità della comunicazione ai giornali, la distanza si accorcia e ne viene un vivo interesse umano che ha più dell’ammirazione che della compassione. Cura un cancro renale al quarto stadio metastatico ma non è in assetto di combattimento, non lotta, dice, non lo esorcizza come un alieno, lo accetta come parte del proprio corpo e complemento di una vita che le si annuncia breve ma ricorda felice, a molti strati, segnata da una radicale irrequietudine e pacificata nell’amore, nell’amicizia, nelle relazioni queer di una famiglia non tradizionale alla quale destina dieci letti di comunità in una casa appena comprata per trascorrere insieme un certo imprecisato numero di mesi consentiti dalla immunoterapia.
Sarda fin nel profondo, è severa. Giudica e manda senza complessi. La coppia tradizionale, il matrimonio di coppia al quale ora si piega per mere ragioni legali, è fomite di menzogna e tradimento. In Italia non c’è l’alternanza democratica, c’è il fascismo, e lei spera di morire a fascismo tramontato. Sente come una sequela intollerabile di offese personali gli attacchi alle sue posizioni così estreme e alla loro espressione tanto enfatica. Nel momento in cui l’esistenza si spencola su un burrone, e la sua vita corre verso un traguardo senza ritorno, assume però senza retorica un punto di vista sapiente, rassegnato e per quanto possibile “sereno”. Le questioni della morte, della sua ritualità raccontata nel suo romanzo di esordio sulle misteriose pratiche eutanasiche delle comunità sarde, Accabadora, ritornano in un grido cattolico e cardarelliano, “morire sì / non essere aggrediti dalla morte”. Vuole avere il tempo per distribuire a sé stessa e agli altri i pani e i pesci del miracolo della vita umana. E’ un atteggiamento raro e prezioso.
Sostiene che la democrazia si è messa a rischio grave quando per dominare la pandemia ha scelto un tecnico e un generale. In uno dei brevi saggi della sua ultima raccolta, Franco Marcoaldi cita il giurista e umanista Natalino Irti per accennare a un elogio laico dell’obbedienza alla norma, obbedienza per convinzione. L’obbedienza è una cosa molto bella, che una coscienza limpida sa come trasfigurare e incarnare, è una virtù che Murgia non conosce e non vuole conoscere, in nessuna delle sue accezioni civili, etiche, politiche. In questo sta nel mainstream, perché le sue opinioni di contrarian sono la materia prima corrente in una sfera di riluttanti e ribelli che ha caratteristiche di massa e tratti conformisti, ma con una sua cocciutaggine e autenticità capace di spiazzare.
Ora che una scrittrice e ideologa agli antipodi delle pratiche discorsive in cui mi riconosco annuncia il suo progresso cristiano verso una morte che fa rivivere la comunione degli esseri, e offre una lezione di salvezza dicendo a Aldo Cazzullo che “il mondo è bello, dipende dal mondo che ti fai”, mi spiace pensare che in una vita e in una professione di invadenza e curiosità verso gli altri, quel carattere, quel tipo, me l’ero perso.