L'occhio della tragedia
“Ucraina senza ebrei”, il reportage di Grossman dallo sterminio
Il silenzio vuoto che fa “tremare l’Universo” e altri massacri dissepolti. Lo scritto da cronista di guerra, appena pubblicato da Adelphi, sulle motiviazioni storiche dell’odio antisemita
“Quando tra colpi di cannone e fragore di granate le nostre truppe entrano nei villaggi della Riva sinistra ucraina, le oche nelle aie si staccano da terra sbattendo le enormi ali bianche e volteggiano a lungo sulle case, sulla lenticchia d’acqua che copre gli stagni, su orti e frutteti”. Tutt’intorno è silenzio, un silenzio vuoto di terra desolata. “Hanno qualcosa che turba, qualcosa di strano, quel volo greve e faticoso di uccelli da cortile e quel loro starnazzare brusco”. Negli occhi attenti del cronista di guerra che nel 1943 entra in Ucraina al seguito dell’Armata Rossa ci sono già le visioni e le parole del futuro testimone dello sterminio degli ebrei (fu tra i primi a entrare a Treblinka all’inizio di settembre del 1944) e poi della della tragedia della Guerra, e della Russia e dell’Ucraina straziate nel totalitarismo di Stalin. Ma allora Vasilij Grossman, ebreo ucraino per nascita, non aveva ancora quarant’anni ed era il fedele cronista delle imprese dell’Armata rossa, l’esercito (quasi) senza macchia in marcia per la liberazione dei popoli. Il suo occhio e la sua sensibilità fotografano la tragedia di un’intera nazione: “In ogni città o villaggio ucraino non c’è casa in cui non si sentano parole piene di rabbia o amarezza contro i tedeschi, in cui in questi anni son si siano versate lacrime su lacrime”.
E sono “lacrime e maledizioni, queste, che confluiscono come ruscelli nel fiume immenso del dolore e dell’ira di tutto un popolo”. Ma dopo questo primo elenco a volo uccello di città e villaggi piagati, ecco una rivelazione ancora più sconvolgente: “In Ucraina, però, ci sono anche villaggi in cui non si sentono lamenti né si vedono occhi bagnati di lacrime, villaggi in cui regnano il silenzio e la quiete”. Nel villaggio di Kozary “regnavano la quiete e il silenzio della morte. Settecentocinquanta erano le case cui i tedeschi avevano dato fuoco, settecentocinquanta le famiglie che in quel fuoco erano arse”. In più ondate di ferocia, i nazisti dal 1941 avevano compiuto – in modo sistematico e persino caotico – lo sterminio degli ebrei dell’Ucraina. Eichmann calcolò in due milioni gli ebrei uccisi durante l’avanzata. L’eccidio più mostruoso porta il nome di Babij Yar, vicino a Kiev, dove tra il 29 e il 30 settembre 1941 furono uccisi 33.771 ebrei. Grossman elenca soprattutto i nomi e il martirio delle piccole città e dei villaggi. Scrive: “E mi sono scoperto a pensare che, in Ucraina, il silenzio di Kozaky è il silenzio degli ebrei. Non ci sono più ebrei, in Ucraina”.
Adelphi ha da poco pubblicato un breve scritto di Grossman, “Ucraina senza ebrei”, il testo di un lungo articolo in cui, per la prima volta, un osservatore-reporter racconta e tenta insieme una interpretazione di quanto accaduto, interrogandosi sulle motivazioni storiche dell’odio per gli ebrei e di quelle proprie, ingigantite, del “fascismo tedesco”. L’articolo di Grossman ebbe una vita complicata, come chiarisce in questa pagina Adriano Sofri. Difficoltà non estranee all’antisemitismo di marca sovietica che rendeva sospettoso il regime, e “che in ‘Ucraina senza ebrei’ Grossman aveva provato a esorcizzare”, scrive la curatrice Claudia Zonghetti. O, come ha scritto qualche settimana fa Fiamma Nirenstein sul Giornale, nel “contraddittorio sforzo teorico di conciliazione con l’Ucraina, il mondo sovietico, e con una spiegazione dell’antisemitismo che funzioni coll’universalismo comunista, Grossman paga il conto del suo inquieto essere comunista mentre tuttavia descrive, da ebreo, l’indescrivibile”.
E’ un Grossman che ancora non ha ingaggiato la sfida decisiva e devastante con il doppio totalitarismo, chiamando alla sbarra anche il suo. Tornando nella sua patria ora liberata dai nazisti, non ha ancora negli occhi altri stermini, i kulaki e i contadini uccisi per fame un decennio prima, tra cui in cui morirono assieme i “biondi” ucraini” e “un popolo che per secoli ha vissuto a fianco a fianco col popolo ucraino”. Quei massacratori diversi dello stesso popolo di cui scriverà, in “Tutto scorre”: “Non si sarebbero mai seduti a tavola con loro, persino un bambino kulako gli faceva ribrezzo. Guardavano la gente da ‘dekulakizzare’ come fossero del bestiame, dei porci. Gente senza personalità né anima. Niente pietà per loro”. Ma, nella grande complicazione della tragedia ucraina, il corrispondente di guerra guarda già oltre, parla soprattutto “del suo dolore, della sua incredulità, del suo essere ebreo” (Nirenstein). E la tremenda visione della storia riemerge nelle ultime pagine: “Ma se per un attimo quel popolo ucciso potesse tornare in vitò, se la terra si aprisse nel burrone di babbi Yard… se un grido lancinante si staccasse dal quelle centinaia di migliaia di labbra piene di terra, l’Universo intero tremerebbe”.