vendette e prospettive
+++ Il dramma dei nativi americani fa da sfondo a un thriller con un messaggio
Un libro dai risvolti inquietantemente horror, con cui l'autore lancia un monito potente: la coesistenza dell’uomo con la natura è possibile solo nel rispetto reciproco. “Gli unici indiani buoni” di Stephen Graham Jone
La nostra conoscenza degli Stati Uniti è basata su miti così grandi da sembrare universali. Miti che esaltano l’uomo contro la natura, i buoni contro i cattivi. Uno di questi è la conquista del West, narrata come avanzamento della civiltà occidentale verso i nativi (averli definiti indiani non è che il più grande degli errori dell’ottica colonizzatrice europea). Invertendo le prospettive, tuttavia, è stato un enorme progetto di genocidio e migrazione forzata che ha confinato i veri abitanti del paese in riserve, minuscoli fazzoletti di terra lontani migliaia di chilometri dalle loro zone d’origine, a vivere in roulotte o case mobili. Alla base del mito non c’è dunque proprio nulla di mitico. Oggi i nativi, separati dalle loro radici e non considerati come “veri” americani, continuano a vivere ai margini della società, nell’indifferenza generale.
Per Gli unici indiani buoni (traduzione di Giuseppe Marano, Fazi, 320 pp., 18,50 euro), Stephen Graham Jones sceglie la prospettiva di chi queste vicende le conosce bene: anche lui è infatti un nativo, appartenente alla tribù dei Piedi Neri nonché professore di letteratura inglese all’Università del Colorado. I suoi protagonisti sono quattro nativi, ognuno con un nome “americano” (Lewis, Gabriel, Richard e Cassidy) e un cognome “tradizionale” (Cross Guns, Boss Ribs, Seeks Elk). Ognuno di loro ha vissuto in modo più o meno diretto l’emarginazione: droga, violenza, alcolismo, carcere, abbandono scolastico. Ma a legarli è, più di ogni altra cosa, il “Classico del Ringraziamento” di dieci anni prima. Interpretando maldestramente i racconti della tradizione, che conoscono solo approssimativamente, cercano un’impresa che li faccia apparire valorosi come i loro antenati. Ma finiscono per scimmiottare il vero eroismo passato: penetrano infatti in una zona della riserva dove la caccia è vietata e massacrano un branco indifeso di wapiti, una specie di cervi.
Più che il guardacaccia, è la natura che non li perdona, perché Lewis (che porta nel nome e nel cognome, Clarke, i nomi dei primi esploratori bianchi che attraversarono il continente nel 1800) ha ucciso una giovane femmina che stava per partorire un cucciolo. Il primo a rimetterci è Rick, massacrato di botte fuori da un bar (il giornale ha scritto così, ma noi sappiamo che un branco di wapiti spuntato dal nulla lo ha braccato). Poi tocca a Lewis, che quasi impazzisce prima di essere ammazzato dalla polizia sulla strada verso la riserva, la pelle della cerva uccisa in braccio, e infine a Cass e Gabe: vittime della donna dalla testa di wapiti, uscita dal passato a incarnare il loro rimorso in una figura mostruosa. La vittima finale che chiuderebbe il cerchio è Denorah, la figlia di Gabe, in una spietata legge del contrappasso che punisce allo stesso modo chi uccide i cuccioli dell’altra specie. Ma Denorah, che sogna un riscatto come campionessa di basket, fermerà la catena di vendette. Con un thriller dai risvolti inquietantemente horror, Stephen Graham Jones ci lancia un monito potente: la coesistenza dell’uomo con la natura è possibile solo nel rispetto reciproco. Un rispetto che le tradizioni dei nativi hanno tramandato per decenni incarnandolo nelle storie della tradizione, alle quali si aggiungerà anche quella di Denorah Cross Guns.
Universalismo individualistico