(Ansa)

Libri senza parole

L'ideologia del “senso comune” da imporre e la paura per la destra al Salone

Maurizio Crippa

Il disastro medio riflessivo. L’ossessione progressista per la kermesse torinese e l’oscenità della parola tolta

Il Salone del libro non è una bancarella, ma un confronto di idee nella libertà intellettuale degli autori che incontrano i loro lettori. Dunque un appuntamento in cui si riflette il momento del paese”. Chi avesse avuto la forza d’animo di proseguire la lettura dell’editoriale di Ezio Mauro di ieri su Repubblica, rubricato sotto l’ossessivo “Il sovranismo culturale della destra”, avrebbe constatato che nel sulfureo panorama immaginato da Mauro tutto magicamente si tiene: il Salone sotto attacco (ma di chi?), il “senso comune” e la tremenda ambizione di Giorgia Meloni di sottrarre “questa capacità culturalmente sovrana di decifrare e definire ciò che stavamo vivendo”, e che era ovviamente “riconosciuta alla sinistra”.

Prima. Per tornare al Salone, “c’è anche il dissenso e la contestazione al potere, che ha il diritto di manifestarsi purché non impedisca l’espressione del pensiero altrui”. E sul “purché non impedisca” sono caduti tutti gli asini volanti del weekend. L’articolo di Mauro rende chiaro che il Salone per la sinistra è una bandiera. Si sbaglia, Mauro: il Salone è davvero una bancarella, ed è la festa popolare del ceto medio riflessivo. Fosse davvero “un confronto di idee nella libertà intellettuale degli autori che incontrano i lettori” non sarebbe accaduto quanto è accaduto a  Roccella e al suo libro dedicato alla storia della sua famiglia (e non “ai temi della famiglia”, come qualche tordo ha cercato di far intendere ai cetomedisti).

 

Ma la fissazione per cui “le destre” che non hanno mai avuto cultura, eccetera (ma è indubbio che, seppure ne hanno, al governo non sembrano averla portata) ora vogliono prendersi il Salone è cosa seria: “E’ la sfida per la conquista del senso comune dominante”, scrive Mauro, “che viene prima, vale maggiormente e dura più della scelta elettorale, anche perché la determina”. Ricordiamo, infatti, pezzi di lunare allarmismo sulla sostituzione di Lagioia, sembrava stessero per nominare Goebbels. E invece no. Perché, appunto, il Salone è un trofeo del ceto medio, quasi come Sanremo lo è per il ceto popolare, e plasmarne il “senso comune” per i nipotini di Gramsci è fondamentale. 

 

Un curioso esempio di cosa sia “senso comune” e cosa ceto medio riflessivo arriva dal Salone per una via insolita, ma degna di nota. Siamo più che certi che Susanna Tamaro facesse ironia, quando ospite a Torino  ha detto: “E’ difficile portare i ragazzi alla lettura anche perché ci sono testi davvero difficili e anche brutti. Basta con Verga. Si potrebbe sostituire con Va’ dove ti porta il cuore”. Bon mot. Ma siamo ancora più certi che fra i tanti volonterosi carnefici della scuola che compongono la falange armata del ceto medio riflessivo l’abolizione di Verga, o di Manzoni, o della storia moderna in nome “dell’aggiornamento” sarebbe accolta con gli hurrah!. In nome, appunto, del trionfo di quel “senso comune” alla cui conquista, secondo Ezio Mauro, starebbero invece puntando le destre. Invece il senso comune – quella sorta di coscienza unica e totalizzante che decide il bene e il male, e che sia giusto e anzi legittimo zittire una persona se non è d’accordo con la maggioranza dei migliori – è un patrimonio inestirpabile delle “sinistre”. Proprio quel “senso comune”, che per Manzoni è il vero nemico del buon senso, è oggi in mano a questi bizzarri novatori, a questa nuova chiesa che impone i suoi dogmi e le sue credenze. Tanto che, per dirla col Manzoni (e Mattarella), chi a Torino aveva del buon senso “se ne stava nascosto, per paura del senso comune”. Infatti Lagioia, tornato ieri a denunciare che “il governo può avere una virata autoritaria”, sabato s’era dato alla fuga pusillanime anziché difendere la libertà di parola della sua ospite.

 

Se c’è però una cosa ancora più oscena del “senso comune”, ma del resto perfettamente prevedibile, una cosa ancora più refrattaria al buon senso della cacciata di una autrice  organizzata dei giovani “extinti” che trapassano senza colpo dalla vernice nella Fontana di Trevi alle mutande sventolate a Torino davanti a Roccella – che non di mutande doveva parlare ma di un libro biografico e autobiografico – questa cosa oscena è la lista, che varrebbe una segnalazione in ordine alfabetico, di quanti hanno detto e scritto che impedire di parlare è legittimo. Procedendo con un ribaltamento. Non la faremo, niente liste di proscrizione, qui, e di certo Montaruli poteva risparmiarsi a sua volta la piazzata. Ma non è lei ad aver chiuso la bocca ad altri. Ma per una volta s’è visto un partito compatto, il Pd, a tracciare il solco. Da Elly Schlein, “sono autoritari, temono il confronto”, a Chiara  Gribaudo che evidentemente non distingue i termini, “è una destra allergica al dissenso”, fino a Orfini per cui il problema è “la reazione allucinante e intimidatoria della Montaruli”.

 

Insomma tutti allineati alla visione antidemocratica secondo cui “è più democratico e tollerante un sistema che permette l’esercizio del diritto di contestare un ministro in pubblico”. Dunque è “democratico e tollerante” zittire una persona che presenta un libro. Fino alla colpevolizzazione della vittima (a opera di una giornalista donna, per di più): “La retorica del ‘non mi fanno parlare’ e il vittimismo piagnone accomuna tutte le nuove destre estreme”. “O felix culpa! La vicenda Roccella, se non altro, sta inducendo tutti o quasi tutti a mostrare il loro peggio: intolleranze, cortigianerie, tartufismi, vittimismi incrociati”, ha ben sintetizzato in un tweet Guido Vitiello. Critica che a tratti può essere persino bipartisan, ma che certo nel caso si addice soprattutto a qualcuno: “Chi nega la libertà di parola dovrebbe fare lo sforzo di mettersi nei panni della persona a cui viene negata la libertà di parola” ha commentato Elena Loewenthal, direttrice del Circolo dei Lettori.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"