Triviale e sublime
Altro che poeta-trombettiere, ecco i versi del Majakovskij d'amore
Una nuova antologia einaudiana rende giustizia al ricco bagaglio espressivo di cui era dotato lo scrittore georgiano. Parole che anelano all’assoluto bruciando sempre al presente
Ben venga il Majakovskij d’amore. Ben venga lo stridore dei timbri, il triviale e il sublime nella stessa lingua – quella mossa, ardente, imperiosamente sghemba del poeta. E ben vengano le gomitate, quelle con cui, obbedienti mentre ci gustiamo questa antologia einaudiana (Poesie d’amore 1913-1930, testo a fronte, cura di Paola Ferretti, 170 pp., 14,50 euro), potremo finalmente farci largo – così ci ha istruito Angelo Maria Ripellino che lo diceva cinquant’anni fa (essere sordi ai maestri è o no un peccato mortale?) – “tra le turbe di glossatori saccenti che continuano a impoverire questo grande poeta d’amore, confinandolo alla sola dimensione politica”. Immagine che i nemici hanno spesso deturpato senza tante cortesie. Bunin, per esempio. Nei suoi Giorni maledetti, diario dell’odiata rivoluzione, racconta un Majakovskij definito poeta solo tra virgolette. “Quella sera si era radunato il fiore dell’intelligenza russa” – scriveva Bunin – “e tra tutti trionfò lui, Majakovskij. Senza che lo avessimo invitato si avvicinò, infilò una sedia tra noi e si mise a mangiare dai nostri piatti e a bere dai nostri calici, la bocca grande come un trogolo. Il ministro degli Esteri Miljukov si alzò per il brindisi ufficiale e Majakovskj si precipitò verso di lui, al centro della tavola. Quindi balzò su una sedia e cominciò a berciare in modo così osceno che il ministro restò di stucco”.
Questa raccolta cancella l’immagine del poeta-trombettiere. E rende giustizia a un bagaglio espressivo molto più ampio di quanto non si sia raccontato se genuflessi davanti al ritratto del “poeta delle masse”. Un tono meno assertivo e beffardo, quello che qui si troverà, e un arco poetico che va dai versi futuristi ai bozzetti più intimi dell’ultimo periodo – poi sempre consigliabile leggersi Serena Vitale, che gli dedicò il bellissimo Il defunto odiava i pettegolezzi. Ma prima di odiare, ecco che il poeta ha amato. Per tre lustri, Lilja Brik. Dal 1915 al 1930 le composizioni majakovskiane rendono conto del mondo tra loro, anzi, di un mondo che dipende tutto da lei, amata ed elevata all’ennesima potenza. Una donna-cattedrale. “Amore! / Eri soltanto / dentro il mio / cervello in fiamme!” grida Majakovskij ai posteri. E “Chi siete voi / genti future?”, canta poco prima di offrirci, col componimento Lilicka, in luogo di lettera, la tenerezza disperata dei suoi versi più laceranti, brucianti della selvatichezza che gli conosciamo, lo squaderno dei giorni e delle notti di chi ama e sa che il proprio amore “è un carico grave” che incombe sull’amata, perché se un toro è sfiancato si allunga nelle acque fresche, ma “io non posso / all’infuori del tuo amore / io non ho mare”.
Sono versi sempre attraversati dalla febbre di una preveggenza tragica, “a lampi di telegrammi”, consapevoli della sproporzione tra terra e cielo, perché in terra si tiene il conto inutile – quello minuto, piccino, dei torti e delle ragioni tra gli amanti – ma il cielo è là, un tributo all’incontabile, un monito dall’infinito, ed è “in ore simili / che ti alzi e apostrofi / la storia, i secoli, il creato intero”. L’amore majakovskiano è sempre questo dialogo impari. E i versi si buttano giù dal terrazzo. Le parole sbottano, le sillabe sono razzi. Majakovskij mitraglia anche se accarezza, tortura la tela stessa che dipinge. E spera che non gli tocchi mai il buonsenso ignobile, mentre si torce le dita e si rigira nel letto. I suoi versi potrebbe averli scritti Raskol’nikov dalla sua stanza come un armadio, perché Majakovskij è animato dalla medesima aspirazione dostoevskiana all’assoluto, all’eloquenza veritativa – l’anima presa a martellate. Se dice, dice tutto. Se dice tutto, dice all’eternità. Al cospetto delle sue parole, solo i secoli. E se passeggia, si tormenta, inveisce contro sé stesso e il mondo, e sì, contro i poeti, fratelli amati e odiati, come Lermontov, Esenin, Pasternak. Questa, invece, è Marina Cvetaeva: “Tutto in me: Pasternak. Me in tutto: Majakovskij”. Buon modo per raccontare entrambi. Ma soprattutto per raccontare un poeta che brucia sempre al presente. Anche nel futuro si piange al passato: “Domani avrai dimenticato / che io regina ti rendevo”.