il foglio del weekend
Gli intellettuali firmano appelli e sono fissi in tv: altro che piangerne la morte
Non è vero che gli intellettuali sono scomparsi dal dibattito pubblico e politico. Semplicemente, hanno cambiato arena. Storie di vecchi guru e nuove leve
Vissuta come missione o fardello, indossata con gran disinvoltura, usata come epiteto sprezzante, la parola “intellettuale” torna sempre a tormentarci coi suoi dilemmi. Gli intellettuali non ci sono più, gli intellettuali sono ovunque (e poi la frase fatta, “ti ammiro per la tua onestà intellettuale”, cliché irritante dell’italiano neoemozionale). Su Repubblica un fraseggio sempre più agonistico dal Salone di Torino, titoli da wrestling: “Nicola Lagioia all’arena Robinson”, “ressa al Lingotto”, “difendere questa bellissima palestra di democrazia”. L’intellettuale dunque è vivo. Intellettuali siamo ormai un po’ tutti, dice Javier Cercas ospite della kermesse, perché “se intervieni nel dibattito pubblico sui social, stai già operando come un intellettuale” (quindi non più le “legioni di imbecilli” di Eco, ma i social come “ammortizzatore”, rimedio alla sovrapproduzione di intellettuali che almeno intanto scrivono, spiegano, denunciano, s’indignano lì dentro). La platea degli intellettuali non è mai stata così vasta e tornano sempre alla ribalta. Ecco “gli intellettuali che pensano di vivere in trincea perseguitati come a Pyongyang”, dice Alfredo Antoniozzi, vice capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, dopo l’affaire Roccella. Ecco i nuovi intellettuali della destra, uniti nel patto di via Nazionale, Hotel Quirinale, per rimettere insieme i pezzi dell’“immaginario italiano” e “scardinare le casematte della sinistra”. Serissimi, ingessati, quasi tutti maschi in blazer, non proprio giovanissimi (a parte Francesco Giubilei, piccolo Mozart dell’editoria che però dimostra cinquant’anni anche se è del ’92). Ecco il pantheon, sempre quello: da Prezzolini a Pingitore, Croce o Gramsci jolly, e la new entry “Osho”, come un Diego Bianchi “de destra”, per un “interludio goliardico”. Ecco gli intellettuali che firmano l’appello per “dare una mano a Schlein”. La solita ammucchiata di “scrittori, docenti, esponenti della società civile e sindacale di sinistra” per un totale di centosessantotto intellettuali che ora “sentono la necessità di una grande forza della sinistra democratica, progressista, femminista, ecologista che si batta per la giustizia sociale e climatica” (la “giustizia climatica” dev’essere quella evocata anche da Occhetto, con le alluvioni mandate da un Dio furioso perché ignoriamo i giovani attivisti). Scenari autarchici e funerei, rigide separazioni tra “belle arti” ed economia o tecnologia, e poi firme, appelli, slogan assembleari. Roba da far rimpiangere le Leopolde di una volta, dove almeno spuntavano un iPad e il garage di Steve Jobs. Sempre minacciata, sempre rinviata, l’estinzione degli intellettuali è una factory che produce libri e dibattiti a getto continuo (con tutta una loro “bibbia”, come dicono gli sceneggiatori delle serie tv: un richiamo all’affaire Dreyfus e “la trahison des clercs” in apertura, una lunga cavalcata fino a Pasolini, quindi l’orazione funebre finale, il lamento per la scomparsa dell’intellettuale, travolto e tramortito da internet, dalla globalizzazione, da un’economia dell’attenzione spietata coi tempi lunghi della “riflessione”). Come faremo, signora mia, senza gli intellettuali ormai inabissati, inascoltati, stritolati nelle grinfie della società dello spettacolo? E sarà più intellettuale chi vende o chi non vende? L’attuale o l’inattuale? Meglio l’intellettuale-influencer che si butta nella mischia, o meglio quello ospite fisso nei talk, à la Cacciari, à la Montanari, o meglio ancora il recluso, auto-esiliatosi in uno studio matto e disperatissimo che lascia un’opera magari postuma? Sono assilli che ritornano e restano sempre “aperti”.
D’altra parte, non esistono veri modelli. Alle figure classiche dell’intellettuale organico, impegnato, accademico, o dell’editorialista di punta, si aggiungono nuove categorie più sfumate: il retequattrista, l’intellettuale complottista-paranoico, censurato dal potere ma sempre in tv. L’intellettuale antisistema, scuderia ByoBlu, la Frattocchie del populismo fantasy, no-vax, no-green pass, no-tav. E poi l’influencer “watchdog”, che fa un Instagram di denuncia, evoluzione del vecchio opinionista a braccio su tutto: licenze dei taxi, femminicidi, clima, ristoranti carissimi, vaccini, Sanremo, migranti, studenti in tenda, affittuari a Milano, Ddl Zan, Pnrr, ChatGPT. Sempre inseguendo o dettando l’agenda della pólemique du jour. Però nella platform society, “intellettuale” torna a essere soprattutto un aggettivo più che un sostantivo. Usato quindi come categoria merceologica o target: “film intellettuali” su Netflix, “musica intellettuale” su Spotify, “romanzi intellettuali” consigliati dai booktoker (e anche naturalmente “intellectual” su Pornhub, dunque occhiali, giornali, riviste, gente impegnata a fare altro ma comunque con un libro in mano o sul comodino). C’era una volta la “maggioranza silenziosa”, oggi un’esigua minoranza, travolta dal vasto partito degli opinionisti in servizio permanente. Il marxismo era “l’oppio degli intellettuali”, l’opinionismo è una droga sintetica. L’euforia, l’adrenalina, l’estasi di una popolarità improvvisa, travolgente, eccitante. La possibilità di essere finalmente ascoltati da tutti su qualsiasi cosa. Catapultato fuori dalle aule universitarie, dai convegni, dalle Fondazioni, proclamato “divulgatore” dalla società civile, l’intellettuale si uniforma subito al modello sartriano. Diventa animale da palcoscenico del Primo maggio, come Carlo Rovelli, con un po’ di engagement e antiamericanismo e allargamento della Nato che stanno sempre bene su tutto.
Più del titolo di intellettuale preme però dare quello di “ultimo intellettuale”. Ultimi intellettuali furono Pasolini, Bobbio, Giorgio Gaber e Umberto Eco, soprattutto quello del “fascismo eterno”, degli appelli contro il Cav. e delle sfuriate contro i social, con Kant, anche lui sul comodino. Ultimi intellettuali sono stati Mark Fisher, con quel claim perfetto per Instagram (“è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”) o Slavoj Zizek, quando non c’era festival culturale che poteva fare a meno del suo bagaglino decostruzionista e supercazzole con Marx, Lacan, i Simpson e “Matrix”. “Ultimo intellettuale pubblico” fu Zygmunt Bauman, mentre “ultimo intellettuale vivente” è Noam Chomsky. Con Dario Fo moriva “l’ultimo intellettuale totale”. Con Camilleri ci lasciava “uno degli ultimi, veri intellettuali”. Con La Capria se ne andava “l’ultimo intellettuale napoletano del dopoguerra”. Con Asor Rosa, “l’ultimo intellettuale militante”, mentre ci si domanda che fine abbia fatto Aldo Busi, “ultimo grande intellettuale italiano” (ha un romanzo pronto di quasi mille pagine ma non trova un editore, voleva donarlo in eredità ai nipoti e non l’hanno voluto neanche loro, “grazie Zio, non ci interessa”). Ultimo intellettuale è Zerocalcare, celebrato nell’omonima copertina dell’Espresso, ma già scavalcato da Marracash, ultimo degli ultimi intellettuali, che nei dischi infila Recalcati e Kanye West o Byung-Chul Han e “La guerra di tutti” di Raffaele Alberto Ventura. Quando uscì la copertina dell’Espresso, Zerocalcare provò grande imbarazzo, non si sa se per il peso della “responsabilità” o per un’etichetta così vecchia, così borghese (“me vergognavo de meno a finirci tutto vestito di Gucci come Achille Lauro”, che però è una sparata molto intellettuale). C’era invece in quella copertina una logica impeccabile: l’ossequio dei boomer alle graphic-novel, l’affanno di recuperare decenni di fastidio e diffidenza verso il pop, l’ansia di passare il testimone a un giovane interprete “der disaggio”. Zerocalcare, poi, come intellettuale è in fondo perfetto, cioè inquadrabile nei grandi riferimenti condivisi: romano, cresciuto ai bordi di periferia, antifascista, anticapitalista, antagonista, coi fumetti e i meme al posto di romanzi e film di una volta (e però anche qui mai un informatico, un brillante economista, un intrepido sviluppatore di intelligenze artificiali, portato come esempio di intellettuale dei tempi nuovi).
Nel vasto oceano dei libri sull’estinzione degli intellettuali, ecco quello di Giorgio Caravale uscito da poco per Laterza (“Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni”), dove però non si versano lacrime inutili, non si rimpiangono i bei tempi andati dell’intellettuale gramsciano che non torneranno più. E’ invece una lunga e sfolgorante cavalcata per ricostruire le “ragioni che negli ultimi decenni hanno indotto politici e intellettuali a ritenere di poter fare a meno gli uni degli altri”. Concentrato su questo cortocircuito, Caravale racconta una storia tragica e buffa. Un viaggio dell’eroe intellettuale italiano alle prese con la politica e l’antipolitica, i congressi e le Leopolde, gli appelli, le fondazioni, i girotondi. Ci si addentra in una galleria di esempi “paradigmatici” della mutazione genetica di questi anni. La sostituzione etnica dell’intellettuale con un’altra cosa che assomiglia all’intellettuale ma è appunto “un’altra cosa”, con Sgarbi come archetipo e snodo decisivo, creatura mitologica generata metà da Maurizio Costanzo, metà da Federico Zeri. Ecco Berlusconi che prima arruola un manipolo di “testimonial della libertà” da dare in pasto all’opinione pubblica (quasi tutti ex-marxisti o iscritti al Pci, oltre a Marcello Pera e uno studioso di Kurt Gödel), ma poi non sa bene cosa farsene e li molla. Ecco la Lega che punta su rievocazioni in costume, sagre, rituali padani. Ecco l’area della destra conservatrice che mette su fondazioni e think-thank a ripetizione, come la “FareFuturo” di Fini, utilizzate più che altro come start-up di carriere politiche e processi assai classici di cooptazione tra amici. Ecco Renzi, naturalmente, col suo “vaste programme” di rigenerazione pop della cultura di sinistra, con Baricco e Recalcati al posto di Gramsci e Berlinguer. Ecco l’apogeo dell’antintellettualismo populista, il “vaffanculo” grillino, la “crescente avversione contro gli esperti di ogni campo del sapere, gli intellettuali in particolare”, per celebrare “l’incompetenza e l’inesperienza come prova regina di integrità morale” (qui l’unico intellettuale organico è stato semmai Rocco Casalino).
Ma un libro sugli intellettuali è sempre, per tre quarti, un libro sui tormenti del rapporto tra gli intellettuali e le costellazioni della sinistra. Caravale racconta quel processo, avviato negli anni Novanta, con cui la sinistra inizia a farsi dettare l’agenda dalle truppe della società civile: scrittori, registi, artisti, opinionisti televisivi, e poi popoli viola, girotondi, agende rosse, professori in marcia, come oggi con “Ultima generazione” e attivisti vari. Non già “l’ascolto” della piazza, ma la soggezione emozionale verso ogni forma di mobilitazione e la sottomissione ai movimenti: nel dubbio facciamo come dicono loro (puntuale, sulle pagine di Domani, arriva la richiesta per l’introduzione del reato di “negazionismo climatico”).
E’ una storia che comincia nel Castello di Gargonza, a Monte San Savino. Qualcuno forse se lo ricorderà. Qui, nel marzo del 1997, i vertici dell’Ulivo organizzano un grande raduno per rimettere insieme politica e mondo della cultura dopo anni di reciproche diffidenze. Oggi sarebbe un bel reality: un castello, settanta politici, una cinquantina di intellettuali, all’epoca selezionati da Omar Calabrese, vate della semiotica all’Università di Siena. Reclusi nelle mura del castello, in una non proprio lungimirante operazione-simpatia, storditi dalla fine del comunismo, dalla Bolognina, paralizzati dall’irruzione di Berlusconi, a Gargonza gli intellettuali avrebbero dovuto “infrangere il muro” e tornare a parlarsi col partito, salvando anzitutto il paese dalle grinfie del Cav. Fu invece l’inizio della fine. Solo Massimo D’Alema intuì l’aria che tirava. Andò a Gargonza per difendere “il primato della politica” e ribadire che “considerare la società civile contro i partiti era un metodo tardo sessantottesco”. Ma ormai era troppo tardi.
E poi c’è la storia davvero bella del rapporto tra Bertinotti e lo psicanalista eretico Massimo Fagioli, già musa di Marco Bellocchio. Bertinotti che diventa “fagiolino”, prende a frequentare la libreria Amore & Psiche al Pantheon, quartier generale del guru, convinto che lì dentro ci siano le risposte al “fallimento di Marx”, troppo concentrato sulle strutture economiche, troppo poco sull’amore e sulla psiche. Poi la cosa diventa morbosa. I due litigano. Si scaricano a vicenda. Soprattutto Fagioli resta deluso da Bertinotti che sceglie Vendola come successore. Ecco: nel passaggio dalla coppia Bertinotti-Fagioli a quella Renzi-Recalcati, dalle oscure librerie del Pantheon alle Feltrinelli e alla Leopolda, c’è un bel pezzo di “grande romanzo della sinistra italiana”, con metafore a perdita d’occhio. Il futuro è incerto. Ma gli intellettuali sono tra noi. Mai così inascoltati, mai così numerosi. E ci sarà sempre un appello da firmare, una convention da organizzare, un palco, un Festival, una marcia, una trasmissione in cui andare, o un Salone per litigare.