Ritratto di Italo Svevo con la sorella Ortensia, di Umberto Veruda (Wikipedia)

dal 1923 al 2023

Cent'anni di Zeno. L'esito più naturale e spregiudicato del romanzo italiano

Matteo Marchesini

Nella primavera del 1923 usciva a spese di Italo Svevo la sua opera più celebre, che offre ancora oggi un’ipotesi feconda per chi voglia superare la crisi della narrativa

Un secolo fa, nella primavera del 1923, usciva a spese dell’autore “La coscienza di Zeno”. C’è mai stato un romanziere italiano più saggio, più naturale e più spregiudicato di Svevo? Forse no. Del resto nella nostra letteratura il romanzo è cresciuto come un fiore artificiale – e infatti Ettore Schmitz, vero nome dello scrittore che sottolineò la propria doppia identità firmandosi Italo Svevo, italiano lo era assai poco. Di padre austriaco, fu educato in un collegio bavarese. Oltre che sui narratori francesi e su Darwin, si formò su Goethe, Schiller, Heine, Schopenhauer, Marx (e poi su Nietzsche e Freud). Nella Trieste asburgica si dedicò al commercio, e per poter gestire gli avamposti londinesi dell’azienda del suocero prese lezioni d’inglese da Joyce, che dopo un lungo insuccesso di critica e di pubblico fece la sua fortuna francese, come Montale quella italiana. Svevo esordisce come narratore nel periodo dell’estetismo, rivelandone col suo stile grigio le verità in ombra. “Senilità”, del 1898, prefigura molto ’900, e sembra fatto apposta per esser letto con le categorie di Girard, dato che si fonda tutto su desideri mimetici e capri espiatori.

 

Nell’opera sveviana, questi e altri temi tornano e si sviluppano con coerenza. Si pensi al modo in cui, per sedurre amici e ragazze, sia l’Emilio di “Senilità” sia l’ex paziente della “Coscienza” denigrano i famigliari. Oppure si veda come l’agonia del padre di Zeno richiama quella di Amalia nel romanzo precedente: e in entrambi i casi il protagonista si rivela troppo distratto per coglierne i sintomi. Fin da “Una vita”, poi, gli alter ego dell’autore tentano invano di ergersi a pedagoghi di donne sfuggenti. Ancora: i personaggi sveviani dimenticano il dolore quando subentra una nuova fissazione: non esauriscono i problemi, semmai li creano e li spostano. Tutto fluttua intorno a loro in un misto di fatalità e caos che rende irresponsabili e favorisce il pensiero magico. Ma nella “Coscienza di Zeno” i temi si decantano; la contraddizione del protagonista tra i troppi rimorsi e la troppa autoindulgenza diventa umoristica. Zeno riesce vittorioso proprio perché è perdente rispetto ai “propositi” singoli attraverso i quali vuole via via realizzare la sua volontà. Passando dalla tutela del padre a quella della moglie-madre, resta sempre “in disponibilità”, informe eppure originale come la vita. Con continue acrobazie da clown, trasforma in disinvoltura e in forza ciò che pareva debolezza e goffaggine. Trionfa cedendo, insomma.

 

E dopo la Grande guerra, accorgendosi che il caos è ormai generale e che forse l’apocalisse è prossima, viene preso da una vera e propria euforia. Ecco un pezzo della celebre conclusione della “Coscienza”, che chi ha il ’900 alle spalle non può leggere senza un brivido: “Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile (…) Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”. Qui la prefigurazione della fine del mondo è ben diversa da quella su cui si chiude l’“Imperio” di De Roberto. Non più cupezza leopardiana, ma strana gioia della catastrofe: la vita è una malattia, e si guarisce solo sparendo.

 

Di fronte a Joyce e Proust, a Kafka e Musil, Svevo sembra un po’ troppo “domestico”. Ma è anche il suo vantaggio. Quei sommi liquidatori del romanzo, infatti, portano in un vicolo cieco, mentre il genere della finta autobiografia clinica, che astutamente schiva la logora trama ottocentesca con una serie di capitoli-esempi (l’ultima sigaretta, la moglie, l’impresa, l’amante…), offre un’ipotesi ancora feconda per chi voglia superare la crisi della narrativa, senza tuttavia rinunciare alla critica della società e delle ideologie che caratterizza la tradizione romanzesca. E a proposito di ideologie: in un’opera cosiddetta “psicanalitica”, la psicanalisi viene derisa con trovate degne di Molière. Queste trovate reggono grazie allo stile cui si accennava: una scrittura antiletteraria, incolore e duttile, ricalibrata momento per momento sulla cosa da dire. In questo senso Mengaldo ha parlato di un anti-Gadda: un altro modo per confermarci che Svevo, nella nostra lingua, è per eccellenza il Romanziere.