(foto Ansa)

italo in cinemascope

Scoprire Calvino a partire dalla sua passione per il cinema

Andrea Minuz

La fantasia forgiata nel buio delle sale, la passione per Hollywood e le sue dive. Il neorealismo? Troppo cerebrale. Ritratto di uno scrittore che ebbe con il mondo cinematografico un rapporto molto intenso

Per chi andava a scuola negli anni Ottanta, Calvino era soprattutto una “lettura estiva”. Uno scrittore da portare in vacanza. Avremmo dovuto leggere “Marcovaldo” o “Le cosmicomiche” o la “trilogia araldica” per puro piacere, senza la minaccia dei compiti o dell’interrogazione, un po’ perché erano scritti apposta per noi, un po’ perché Calvino (di questo le professoresse erano certe) ci avrebbe catturato con la proverbiale “leggerezza calviniana”. Come un fratello maggiore, un amico immaginario, un compagno di giochi che rivela le gioie della letteratura come divertimento cerebrale. Niente a che vedere con la pesantezza degli altri, insomma. Come potevamo essere insofferenti verso Calvino? Aveva scritto favole, racconti per ragazzi, fantascienza, cosa volevamo di più dalla scuola? Non manualizzato, non canonizzato, Calvino, scomparso alla metà del decennio, non era solo contemporaneo ma prossimo e “attuale”, più simile alla lettura del giornale in classe che a Manzoni e Pirandello. E poi c’erano le foto. Calvino non era immortalato nella severa ritrattistica di famiglia o nei dagherrotipi sbiaditi degli altri scrittori, ma in queste fotografie attuali in cui era sempre sorridente, beffardo, sardonico. Io però questa attualità, tantomeno la sua leggerezza, non riuscivo a coglierle. La fantascienza calviniana, il metaromanzo, le possibilità combinatorie mi sembravano ben poca cosa rispetto a “Ritorno al futuro” o a “Blade Runner”. Mi insospettiva, poi, e mi metteva a disagio il metodo “impariamo giocando” con cui Calvino entrava a scuola, e a conti fatti preferivo la chiara e limpida coercizione dei vecchi classici a una finta complicità. 


Se a scuola mi avessero raccontato quanto ai libri preferisse starsene tutto il giorno a vedere film americani, mi sarei subito fidato di lui


Non so se la scuola di oggi, alle prese col centenario di Calvino, dunque un Calvino classico, manualizzato, canonizzato, si giochi ancora la carta della leggerezza (nel frattempo, impazza sui social il toto-tracce della maturità e Calvino è naturalmente gettonatissimo: riassunti, schemi, soprattutto podcast su “Il sentiero dei nidi di ragno”, tra i più scaricati perché “già scelto dal Miur nel 2015”, ed è chiaro che rispetto alla scuola degli anni Ottanta, più postmoderna di quella di oggi, si porta molto il Calvino resistenziale, l’esegeta di Fenoglio, forse per le continue emergenze democratiche, forse per il solito destino del “fantastico” che prima o poi da noi va ricondotto alla realtà, mentre il Calvino della leggerezza finisce nei monologhi sanremesi della Ferilli, scopiazzato però, con procedimento molto calviniano, dal sito di una professoressa-blogger di Cuneo). Naturalmente, molto dopo la scuola, scoprii anche io Calvino. Se però a quell’epoca mi avessero raccontato quanto ai libri preferisse starsene tutto il giorno a vedere film americani oppure leggere e disegnare fumetti, vincendo anche l’ambito premio “vignetta più scema dell’anno”, mi sarei subito fidato di lui.

 

Partire dalla sua sconfinata passione per il cinema (che la scuola ci teneva ben nascosta) sarebbe stato un bel modo di renderlo attuale e leggero. Come molti scrittori della sua generazione Calvino ebbe col cinema un rapporto intenso. Un innamoramento folle seguito da un inevitabile distacco e l’arrivo di altre passioni, biologia, matematica, cosmogonia, cibernetica, quindi la svolta parigina, l’“Oulipo”, l’“École du regard”, la letteratura potenziale e un Calvino ormai cosmopolita, viaggiatore infaticabile, invitato a Harvard quando ancora non ci andavano tutti come oggi. Tutti gli scrittori della generazione di Calvino si sono formati al cinema, ma più di altri lui sognava da ragazzo di diventare un accigliato critico cinematografico. Scrisse di film con continuità e una gran predilezione per la vecchia Hollywood, i divi e soprattutto le dive fatali, Jean Harlow, Joan Crawford, Greta Garbo, Marlene Dietrich e Myrna Loy, la sua preferita, attrice d’una “bellezza confidenziale e dotata di testa”, diceva, usata sempre nei ruoli dell’ereditiera capricciosa o della moglie ironica. Non è difficile immaginare il giovane Calvino sprofondato nella penombra pomeridiana di qualche “Fulgor” o “Alhambra” o “Moderno” di Sanremo, sciogliersi davanti agli occhioni furbi di Myrna Loy, rimuginandoci su tutta la sera. Dopo la guerra, quando il Partito Comunista lo manderà nelle risaie di Vercelli per un reportage dal set di “Riso amaro”, i passaggi più ispirati, scritti in preda a un’estasi mistica, sono quelli sulle gambe di Silvana Mangano (“parola d’onore”, scrive Calvino, “la più bella ragazza che io abbia mai visto”). Gina Lollobrigida, invece, “con la sua femminilità laziale intrisa di cattolicesimo prelatizio” è soprattutto “burocratica”, come recita il titolo di un formidabile ritrattino che uscirà sul Contemporaneo (“Gina burocratica”): “Intatta e imperturbabile in mezzo a un regno di disordini e eccessi, lei marcia sapendo quello che vuole, coscienziosa, metodica, come se non l’abbagliante via della gloria percorresse ma la precisa routine d’un funzionario”.


Myrna Loy, la sua preferita. Silvana Mangano, “la più bella ragazza che io abbia mai visto”. Gina Lollobrigida è soprattutto “burocratica”


Prima di Pavese e Vittorini, prima di Torino, della Resistenza e di Einaudi, Calvino scrive recensioni folgoranti su piccoli giornali locali. Sul Giornale di Imperia ecco un trafiletto su “San Giovanni decollato”, tra i primi film di Totò. Un attore che, secondo il giovane Calvino, “per mobilità di maschera e capacità mimetica batte di varie lunghezze ogni altro comico italiano; se questa comicità fosse adeguatamente dovuta e temperata potrebbe ottenere effetti ancora maggiori” (la prosa non è ancora leggerissima, ma Calvino coglie il genio di Totò trent’anni prima della maggior parte dei nostri critici). Calvino andava al cinema di nascosto. Al primo spettacolo del pomeriggio. Si portava il quaderno, scriveva al buio. I suoi amici pensavano facesse lì i compiti, invece prendeva appunti su inquadrature, facce, paesaggi. “Ombre rosse” di John Ford lo vide quattro volte in un giorno. Quando inizia a scrivere sull’Unità farà mirabolanti acrobazie per tenere insieme l’amore per il western e le sospette posizioni reazionarie di Ford (“un anarchico sentimentale con una posizione politicamente poco costruttiva, ma che può avere un suo valore di critica e di denuncia”), quindi infila De Gasperi in una lettura di “Com’era verde la mia valle” (“è come il pastore del film di Ford, non si sa se tiene per gli operai o per i padroni”). Sono colpi che userà spesso. Nel 1959, al culmine della sua lunga collaborazione con la rivista Cinema Nuovo del comunistissimo Guido Aristarco, Calvino vede ne “L’infernale Quinlan” di Orson Welles un film su Stalin, mentre i film su Stalin del cinema sovietico gli sembrano come quelli di Tarzan (“funzionano alla stessa maniera, solo che quelli di Tarzan non pretendono al rigore documentario”). Calvino è talmente convinto della sua interpretazione de “L’infernale Quinlan” quale trasparente allegoria dello stalinismo che, venuto a sapere di un soggiorno di Welles a Fregene, prova in tutti i modi a braccarlo per fargli leggere la sua recensione (“ci terrei la leggesse”, scrive in una lettera ad Aristarco, “e mi dicesse se ho ragione”). In quegli anni, Calvino esce ed entra di continuo dalla linea culturale del Pci, schiacciata naturalmente sul “contenuto” e la coscienza di classe dei film. Quando, inviato a Venezia, liquida come una sciocchezza “La finestra sul cortile” di Hitchcock siamo in piena weltanschauung della critica italiana, marxista e non, che è in quegli anni incapace di apprezzare Hitchcock, bravo per carità, ma così frivolo, hollywoodiano, inutile o al servizio del capitale (viene però il sospetto che Calvino il film non l’abbia visto: è difficile accettare che uno scrittore ossessionato dalla visibilità, dalle immagini, autore di un racconto che si intitola “L’avventura di un fotografo”, praticamente una versione cerebrale del film di Hitchcock, non si sia reso conto di quanto calviniano fosse “La finestra sul cortile”). 


Coglie subito il genio di Totò, vede nell’“Infernale Quinlan” un film su Stalin, liquida “La finestra sul cortile”, ma forse non l’ha visto


Il Calvino oramai scrittore e consulente Einaudi non cessa di interrogarsi sui rapporti tra il cinema e la letteratura (“a me il cinema quando somiglia alla letteratura dà fastidio, e la letteratura quando somiglia al cinema anche”). Prima e meglio di altri mette in guardia dal fallimento di “scrivere romanzi in concorrenza con i film”, perché “dove passa il cinema non può più crescere un filo d’erba”. Ma siamo ormai negli anni Sessanta. Il cinema è cambiato. I film hanno pretese artistiche e intellettuali. Calvino segue le avventure di Antonioni o Bergman, capisce, apprezza, ma si disinnamora: “Quando il cinema è diventato adulto abbiamo smesso di divertirci”. Alla metà degli anni Settanta scrive il testo che è la summa del suo rapporto con il cinema, “L’autobiografia di uno spettatore” (lo si ritrova anche nell’ultima raccolta, uscita da poco per Mondadori, “Guardare”, dedicata ai testi calviniani su cinema, disegno, fotografia, arte, curata da Marco Belpoliti). Sono venticinque paginette sorprendenti, tra le cose più belle di Calvino, da infilare nel pantheon dei suoi romanzi, racconti, saggi più noti e celebrati. Nato su commissione, come introduzione a “Quattro sceneggiature” di Fellini, pubblicate in volume da Einaudi nel 1974, “L’autobiografia di uno spettatore” diventa un’altra cosa. Calvino dedica a Fellini le ultime tre pagine. Per il resto parla di sé, dei film visti da ragazzo a Sanremo, dell’amore per il cinema americano, di come “cinema” e “America” fossero allora sinonimi. Subito rivendica, in apertura, l’idea del film come “evasione”, una formula “che è sempre stata usata come una condanna” e che è invece la forza del cinema. Portarci in un altro mondo, governatoda altre leggi, lasciandoci dietro il groviglio e il caos della realtà e della cronaca. Spettacolo avventuroso e non cerebrale, per Calvino il cinema senza la sala e senza un pubblico che freme, s’incanta, sghignazza, rumoreggia semplicemente non esiste (chiamato a presiedere la giuria di Venezia, nel 1981, Calvino vorrebbe che critici vedessero i film insieme agli altri spettatori, non per una questione di “democrazia orizzontale” ma perché fiutando le reazioni del pubblico in sala si capisce meglio il valore di un film).  
Il cinema italiano, si capisce, lo interessava meno. Perplesso di fronte al nostro neorealismo che a quel rapporto istintivo e viscerale col pubblico aveva rinunciato, detestava anche la commedia all’italiana. Era il Calvino illuminista e parigino che proprio non poteva e non voleva riconoscersi nella nostra commedia del boom, meridionaleggiante anche quand’era ambientata a Milano, sgangherata, cialtronesca, compiaciuta. Il Calvino che detestava il carrozzone di Cinecittà e il mammozzone romano ministerial-cinematografico, ma che pure, con “La speculazione edilizia”, aveva scritto una commedia all’italiana perfetta, personaggi sordiani, cambiali, sensi di colpa dell’intellettuale travolto dai tempi nuovi, “Una vita difficile”, insomma, con Calvino al posto di Dino Risi (e poi c’era i “I soliti ignoti” di Monicelli, che prendeva spunto da un racconto di Calvino, “Furto in una pasticceria”). 


Il Calvino illuminista non voleva riconoscersi nella nostra commedia del boom, ma Fellini lo costringe a fare i conti con la sua italianità


Poi a un certo punto, Calvino si ricorda che questa “Autobiografia di uno spettatore” deve essere un’introduzione a un libro su Fellini e nelle ultime tre paginette ci offre una delle più sfavillanti letture dell’opera felliniana. Quando ancora la critica si trastullava solo coi sogni, le visioni, il disimpegno felliniano, Calvino coglie tutta la profondità italiana e ancestrale di Fellini. E Fellini costringe Calvino a fare i conti con la sua italianità. Si può essere intellettuali a Les Halles, scrittore-matematico e cosmopolita, si può torcere la nostra lingua così astratta e scivolosa fino a renderla asciutta, trasparente, logica, ma alla fine, davanti ad “Amarcord”, anche Calvino capiva di essere italiano come tutti noi. La nostra vita era lì, in quella “sintomatologia dell’isterismo italiano”, dice Calvino, che l’opera di Fellini ci rovesciava addosso. Partivano, Calvino e Fellini, da direzioni opposte. Sembravano davvero diversissimi, uno illuminista-razionale-geometrico-combinatorio, l’altro irrazionale, caciarone, visionario. Ma entrambi poi arrivavano al fantastico e al meraviglioso.

 

Tutte le mirabolanti, cervellotiche avventure intellettuali di Calvino nascono da un’idea di avventura che è stata forgiata nel buio delle sale cinematografiche (e anche l’uso italiano di entrare a film iniziato, recuperando poi i buchi della storia a ritroso, funzionava, diceva Calvino, come una palestra di narrativa combinatoria e complessa). Quando nelle ultime interviste gli capitava di parlare di cinema, Calvino s’incupiva soprattutto per la chiusura e la scomparsa delle sale. Il cinema, senza la sala, era un’altra cosa. Una cosa che con lo spettacolo e l’avventura e il palpitare tutti insieme per le sorti dell’eroe non aveva più nulla a che fare. La decadenza del cinema però non lo spaventava. Non lo interessava. Era uno di quei soliti trastulli intellettuali che lo lasciavano freddo. Anche perché “l’agonia di un impero”, diceva, “può durare un millennio, come a Bisanzio”.

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