Le esposizioni
Tre mostre per riscoprire la fotografia rivoluzionaria di Mario Cresci
Al Maxxi fino al 1 ottobre “Un esorcismo del tempo”, la selezione di 350 opere dell'artista che ripercorre i vent'anni di attività in Basilicata, sua terra d'elezione. Altrettanto ricchi sono gli allestimenti del Castello Gamba di Aosta e del Monastero di Astino a Bergamo
(foto Castello Gamba)
(foto Castello Gamba)
(foto Castello Gamba)
(foto Castello Gamba)
(foto Castello Gamba)
(foto Maxxi)
(foto Maxxi)
(foto Maxxi)
(foto Maxxi)
(foto Maxxi)
Quando ancora abitava a Matera, a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, Mario Cresci usava mettersi in viaggio verso nord per andare a trovare l’amico Luigi Ghirri, con il quale discuteva e si confrontava sulle nuove tendenze della fotografia. Una volta, lungo il tragitto, si era fermato a Senigallia, dove viveva Mario Giacomelli, già considerato una sorta di profeta della fotografia d’autore. Cresci disse al maestro che si stava recando a far visita all’artista modenese. “Ah, Ghirri, quello delle foto con i colori pastello… Sì, però è bravo…”. Arrivato a casa dell’amico, disse che era passato a salutare Giacomelli. E l’altro: “Ah, Giacomelli, lui continua a fare quel bianco e nero lì, tutto drammatico… Sì, però è bravo…”. Da allora, spiega Cresci, non si pose più il problema se dovesse scattare a colori e in bianco e nero, non era quella scelta che avrebbe segnato il suo destino di artista. La grandezza era qualcosa d’altro.
Oggi, l’artista nato a Chiavari nel 1942, è considerato uno dei maestri della fotografia italiana ma, come capita a tutti i suoi compagni di viaggio con cui ha rivoluzionato questo linguaggio nel corso degli ultimi cinquant’anni, il suo nome non è conosciuto dal grande pubblico. Se ad aver colonizzato l’immaginario degli italiani sono Sebastião Salgado e Steve McCurry la colpa è di tutti e di nessuno ed è nobile ogni sforzo per riparare a questo danno. Felice coincidenza è quella per cui, in queste settimane è in corso una sorta di retrospettiva diffusa dell’artista che lo vede in mostra al Castello Gamba di Châtillon (Aosta), fino al 18 giugno, al Maxxi di Roma fino al 1 ottobre e al Monastero di Astino (Bergamo), dal 17 giugno fino al 5 novembre. Ciascuna esposizione si concentra su un periodo diverso della carriera dell’artista e, in effetti, una sola non sarebbe stata in grado di dar conto di un percorso complesso e ricco come quello di Cresci che, in oltre cinquant’anni, è riuscito trasformare il suo linguaggio restando fedele alla propria particolare vocazione, che lo ha chiamato ad essere allo stesso tempo testimone in senso tradizionale e sperimentatore.
Il percorso del Maxxi, “Un esorcismo del tempo”, a cura di Marco Scottini, presenta oltre 350 opere che danno conto, in modo approfondito, della ricerca del fotografo nei vent’anni di attività in Basilicata, dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta. In Lucania, Cresci era arrivato, dopo gli studi al Corso di disegno industriale a Venezia, al seguito di un gruppo di studio incaricato di progettare il nuovo piano regolatore di Tricarico, piccolo comune in provincia di Matera. Aveva il compito di documentare il territorio e il dialogo tra l’équipe di studiosi e la popolazione. È l’inizio di una storia d’amore che porta l’artista a scegliere quella regione come terra d’elezione. È un’attività, la sua, che unisce fotografia, insegnamento del design e comunicazione visiva. Le principalipubblicazioni, che danno testimonianza di quella stagione, sono “Matera. Immagini e documenti” e “Misurazioni. Fotografia e territorio - Oggetti, segnie analogie fotografiche in Basilicata”(Meta, Matera, 1974 e 1979). Il primo è un volume monumentale, dal design all’avanguardia, che riporta centinaia di immagini della città dei sassi, in quegli anni considerata “vergogna nazionale”, simbolo della crisi del meridione d’Italia.
Nel secondo libro, invece, si raccoglie la testimonianza visiva del corso di designtenuto dall’artista per la Cooperativa “Laboratorio Uno” di Matera. Si tratta dell’alternarsi di fotografie di paesaggi rurali e urbani, ma soprattutto di oggetti legati all’artigianato locale. Da queste immagini, realizzate in presa diretta, o appoggiando gli utensili su cartafotografica, il docente traeva spunto per le sue lezioni, in cui mostrava da una parte che anche alla base degli oggetti della tradizione c’era una cultura del progetto e dalle immagini proprie della Basilicata si poteva trarre spunto per nuovi prodotti contemporanei. Questo approccio distingue l’artista dalla tradizione della fotografia umanistica e neorealista, nella quale la ricerca dell’empatia rischiava di deteriorarsi nel sentimentalismo. Di quella stagione, poi, sono le serie “Interni mossi”, in cui l’artista ritrae i suoi soggetti facendo in modo che l’ambiente attorno ad essi risultasse ben a fuoco, mentre il volto fosse irriconoscibile. Quasi a dire che l’ambiente in cui la vita si svolge sia in grado di descrivere chi siamo ancor più dei tratti del nostro viso. Anche “Ritratti reali” si sofferma su nuclei famigliari all’interno delle proprie case, che vengono fotografati mentre reggono in mano antiche fotografie di famiglia. Ciascun ritratto è composto da tre scatti, il primo è realizzato con un’obiettivo grandangolare che riprende gran parte della stanza, il secondo più ravvicinato nel quale si riconosce il soggetto della fotografia dentro la fotografia e, in fine, soltanto quest’ultima. Sono immagini di grande intensità emotiva, realizzate attraverso una proceduta di stampo concettuale.
La fotografia non ha accesso all’interiorità, ma la lascia intendere soffermandosi sui particolari che, nei modi più diversi, parlano di una rete di significati che affondano le radici nel segreto dell’animo e della memoria di ciascuno. È per questo motivo che Cresci è interessato soprattutto alla “cultura materiale” di un territorio. Se la costante della sua poetica è lariflessione sul linguaggio stesso della fotografia, l’altro grande fulcro attorno al quale ruota la sua opera è il tema degli oggetti, soprattutto se legati alla vita delle persone: utensili, giochi, simboli plasmati da una manualità tradizionale. Per Cresci si tratta di manifestazioni di design spontaneo, che testimoniano una progettualità e una creatività ingenua e sapiente allo stesso tempo. Una saggezza pratica che oggi sta sempre più venendo meno. Ma se una certa “cultura materiale” si sta smarrendo e viene sostituita da un artigianato sempre meno legato alla quotidianità e sempre più a un consumismo da turisti, è vero che gli oggetti nella nostra vita non vengono meno e continuano a dire, almeno unpo’, chi siamo stati e chi siamo.
La scelta di Scottini è stata di concentrarsi sul lavoro in Basilicata realizzato in bianco e nero, mentre Corrado Benigni a Bergamo, con “Colorland 1975-1983”, ha deciso di dedicare la sua mostra al lavoro che Cresci ha realizzato a colori, proprio su consiglio di Ghirri. Sono stampe realizzate da diapositive che il fotografo aveva realizzato senza una particolare progettualità. Alcune di esse finirono nella mostra e nel libro “Viaggio in Italia” del 1984 e che, forse, sono le sue immagini più note: c’è il campo da calcio vuoto, in cui il cerchio di centro campo assomiglia a un segno di un rituale preistorico, o la facciata bianca della villetta con caminetto rosso immersa nel paesaggio, che sembra disegnata dalla mano di un bambino. Per l’occasione Cresci è ritornato sul suo archivio e ha fatto riemergere tutto il materiale inedito di cui le poche immagini utilizzate da Ghirri sono la punta di un iceberg. La pubblicazione curata da Benigni, che in questi anni sta scavando a fondo per far riemergere tesori nascosti di quella stagione fotografica, sarà certamente una scoperta anche per gli addetti ai lavori, che conoscono di più il Cresci sperimentatore e civile. Mentre in queste immagini il canto della sua fotografia si fa più arioso e leggero. La melodia dei colori è lineare, le tonalità pastello (come diceva Giacomelli…). La ricerca dell’identità dentro il paesaggio tocca, in chiave ghirriana, note esistenziali.
A completare idealmente questo puzzle, c’è il tassello rappresentato dalla mostra “Mon cher Abbé Bionaz!”, curata da chi scrive per il Castello Gamba di Châtillon, sede delle collezioni di arte moderna e contemporanea della Regione Valle d’Aosta. Il percorso, in questo caso, parte da sedici scatti, conservati nei depositi del museo, che Cresci ha realizzato nel 1990 nel contesto di una campagna commissionata dalla Regione e che coinvolge altri grandi nomi della scena fotografica italiana (Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Mario De Biasi, Vasco Ascolini e diversi autori residenti nel territorio). Quando arriva in Valle d’Aosta, Cresciha ancora nella mente la lezione imparata da “Misurazioni” e, nonostante non abbia la possibilità di coinvolgersi anima e corpo con l’ambiente, si fa guidare dalle intuizioni maturate inBasilicata. Se il contesto naturale, culturale e linguistico è lontanissimo da quello lucano, sulle Alpi il fotografo insegue gli elementi su cui la sua ricerca aveva fatto leva fino ad allora. La mungitura nella stalla di Vetan, i gesti del casaro dell’alpeggioMaisonettes, gli utensili e i giocattoli di legno, la festa delle mele a Gressan, il raduno delle bande a Donnas.
L’obiettivo di Cresci indugia sui grandi massi visibili lungo strade e sentieri, sui muri di pietra, sopra ai tetti di lastre di ardesia. L’occhio del designer-artista vede le texture prodotte dal “progetto” spontaneo della tradizione o, semplicemente, dall’accumulo del fieno. Nel dicembre del 2022, e in vista della sua futura mostra a Châtillon, Cresci consulta il fondo fotografico regionale e rimane subito conquistato dalla genuina bellezza dell’opera di don Émile Bionaz (1862-1930). Curato della chiesa di Saint-Nicolas per 37 anni, dal 1893. Il sacerdote valdostano è stato scrittore escursionista e fotografo. La sua documentazione della vita deltempo è un patrimonio importante per la nostra identità di oggi. In Francofonia (2015) il grande regista russo Aleksandr Sokurov si domanda: “Chi sarei stato se non avessi potuto vedere gli occhi di coloro che vissero prima di me?”. Tra le foto di Bionaz gli occhi non mancano e c’è naturalmente anche l achiesa della sua parrocchia, al villaggio sopra Saint-Pierre, ritratta non solodallo stesso Cresci nel 1990, ma ancheda Felice Casorati nel 1925, nella tela conservata al Castello Gamba. C’è da scommettere che il grande pittore, in quella occasione, abbia incrociato il curato-fotografo.
Mario Cresci seleziona venti immagini di Bionaz e le rielabora al computer in modo ironico e poetico. Gioca con l’immagine dell’uomo nella maestosa caverna di ghiaccio di Courmayeur, con il cappello-aureola che passa da un prete a un altro, con gli ottoni di una banda di paese, con il sacerdote che mostra come trofeo una grande aquila reale. Punteggia i volti di una foto di gruppo, con la leggerezza di un John Baldessari, finge che un vecchio muova il capo fiero da un’inquadratura all’altra, si innamora delle mani mosse di quello che, quasi certamente, è lostesso don Bionaz. È un’operazione analoga a quella che Cresci aveva già fatto all’archivio dell’Iccd di Roma nel 2020 (“L’oro del tempo”) e che ripropone ora con uno spirito che sembra ricollegarsi ai “Ritratti reali” scattati a Tricarico. Nelle nuove elaborazioni delle immagini di Bionaz, l’artista riflette di nuovo sul rapporto tra tempo e raffigurazione, facendo leva sull’effetto sorpresa che l’intervento digitale offre a chi voglia impossessarsi di nuovo di questi volti.
L’altra visita importante che Cresci ha fatto nel suo recente sopralluogo preparatorio in Valle d’Aosta è stato al Mav, il Museodell’Artigianato Valdostano di tradizione a Fénis. La visione degli oggetti e degli utensili della collezione che fu di Jules Brocherel (1971-1954), etnologo, alpinista e fotografo valdostano, ha attirato l’artista, che ha desiderato confrontare il suo linguaggio con questo patrimonio di cultura materiale. Se neglianni di Matera, Cresci “analizzava” le forme degli oggetti appoggiandoli sulla carta fotografica ottenendo una fedele sagoma bianca a grandezza naturale su fondo nero, oggi, nel 2023 l’artista sceglie di percorrere un’altra strada. Utilizzando ancora una volta il computer, isola da foto digitali a bassarisoluzione alcune delle statuette e dei giocattoli del Mav e con paziente lavoro ne ridisegna le sagome: il cavallo, lo stambecco, il gallo, il contadino. Quasi loghi, eleganti ed espressivi, che Cresci usa per comporre delle tavole che sono un omaggio all’antica sapienza dell’artigianato valdostano. È un paradosso perché la tecnologia permette all’artista di tornare alladimensione manuale (ogni linea delle sagome è ricostruita minuziosamente) per produrre figure che mantengonola forza iconica degli originali in legno, ma che posseggono una nuova energia contemporanea. È una via questa, secondo Cresci, per tornare ad attingere alla miniera dei significati intrecciati, patrimonio della cultura materiale e dar così vita a un linguaggio originale spendibile anche oggi.