Hans Ulrich Obrist (Stuart C. Wilson / Getty Images)  

Dalla Biennale

“L'arte è una forma di speranza”. Intervista a Hans Ulrich Obrist

Giuseppe Fantasia

“L’empatia e il coraggio di esprimersi risuonano ancora di più in un mondo alternato da continue tensioni. Il cambiamento è possibile ma non perdete mai il vostro tempo”, dice al Foglio il curatore d’arte e direttore artistico della Serpentine Gallery

Questa è la storia di un inseguimento che è nato in realtà da un fraintendimento. Un incontro in due tempi con Venezia a far da sfondo, in realtà protagonista a sua volta. Mentre le piogge torrenziali e le esondazioni dei fiumi devastano il centro Italia paralizzando tutto il resto, in laguna spunta improvvisamente il sole. Hans Ulrich Obrist – tra i più celebri curatori di arte contemporanea e direttore artistico della Serpentine Gallery – è anche lui in città per la Biennale Architettura che per la 18esima edizione è diretta da Lesley Lokko, ma risulta introvabile. Chiamate su chiamate, ma di HUO (lo chiamerò così per comodità) nessuna traccia. “Una delle mie ossessioni – scrive nel suo nuovo libro A che cosa serve l’arte (Marsilio), scritto con Gianluigi Ricuperati - è sempre stata quella di arrivare in una città e, attraverso i nuovi incontri, imparare tutto quello che c’è da sapere, per poi spostarmi in un altro luogo”. Cerco, quindi, di immaginarmelo così: un “pellegrino”, come si è definito più volte, alla ricerca di cose da apprendere. Spero di trovarlo in qualche evento o a una delle tante cene che si sovrappongono (più che susseguirsi piacevolmente) a Venezia in quel periodo o di incrociarlo per strada, su un ponte o una calle, ma nulla. HUO c’è, in molti lo hanno visto, ma non si trova.

 

Poi, all’improvviso, mi arriva un messaggio su WhatsApp: è lui in persona, da un nuovo numero però, e mi dice di chiamarlo. Si scusa del misunderstanding e mi da’ appuntamento alle sei e trenta del mattino (???), perché con Markus Miessen e con Shumon Basarr ha inventato gli incontri di quello che loro chiamano Brutally Early Club, “per rendere possibile un po’ di improvvisazione piuttosto soffocata dalla nostra vita quotidiana”. “All’alba e per tre ore quando la gente di solito non ha altri piani organizzo una conversazione non pianificata e spontanea – continua, cercando di convicermi – che ruota attorno all’istruzione a alle idee per nuovi modelli educativi, per promuovere lo scambio in contesti sia formali che informali”. Sì sì, certo, gli rispondo, ma a quell’ora non se ne parla, perché – gli spiego stavolta io – i ritmi della Biennale sono frenetici e incontrarsi a quell’ora finirebbe col farmi fissare a vuoto la tazza di caffè Americano pensando non si sa a cosa (Non gli dico proprio questa frase ma ne esprimo il concetto). Accetta così di vedermi alle 11 all’Hotel Danieli che fa tanto old style.

 

Arrivo puntuale e lui, manco a dirlo, è già lì con cappuccino, block notes e penna già aperta, avvolto dal suo completo beige che riprende, strano ma vero, i cuscini del divano (avrà studiato anche questo?). Tempo di stringermi la mano e di sorridermi, che inizia subito a parlare e a raccontarmi, dai tempi in cui andava da solo in giro per l’Europa con un Interrail Pass (“il mio Grand Tour”) per conoscere e intervistare artisti e curatori, per finire in un oggi in cui tutti lo vogliono per tenere conferenze, presentare libri, premi, associazioni, partecipare a mostre. HUO è un fiume in piena, dice spesso Io, Io, Io, ma per fortuna non è un fastidioso egoriferito. Si emoziona quando parla e coinvolge il suo pubblico con curiosità ed aneddoti, ad esempio quando mi dice che uno degli incontri più importanti della sua vita è stato con Gustav Metzger, artista fortemente politicizzato che fin da giovane si è impegnato in attività anticapitalistiche e anticonsumistiche, oltre che nella campagna per il disarmo nucleare. “Non abbiamo altra scelta che seguire la via dell’etica nell’estetica”, dice citandolo. “Oggi questo ragionamento dovrebbe essere rivolto soprattutto alla catastrofe climatica e l’arte dovrebbe farci riflettere il modo in cui stiamo distruggendo il nostro mondo. L’impegno ecologista ci ha permesso di fermarci a riflettere e la stessa sarà al centro di tutto ciò che facciamo”.

 

Lui e il suo team, alla Serpentine Gallery, ne son stati i pionieri avendo costituito, ben prima del Covid, un dipartimento ecologico, nominato una curatrice preposta all’ecologia (Lucia Pietroiusti) e creato un progetto multipiattaforma (General Ecology) che integra le preoccupazioni ambientali nei programmi e nelle infrastrutture delle gallerie. “Imparare dagli artisti è la mia e la nostra regola – aggiunge lui – e guardo agli artisti, grandi dell’arte contemporanea come giovanissimi, come a una guida per modellare il futuro. Migliorare le proprie azioni individuali consente di mitigare la crisi climatica, perché è solo attraverso il cambiamento organizzativo sistemico che si possono fare sufficienti progressi verso pratiche sostenibili. Il confronto, precisa è fondamentale come è fondamentale sapere che posso cambiare attraverso lo scambio con l’altro senza perdere né ingannare il senso che ho di me stesso”. È una frase, quest’ultima, che ricorda a memoria perché è di un suo maestro di vita: Édouard Glissant. Ogni giorno, prima di iniziare la giornata (visti i suoi orari, vorrà dire alle sei, ma forse anche prima), legge per quindici minuti La Cohée du Lamentin (Gallimard) che è a metà tra un diario, un saggio e un’opera frammentaria. “Mi piace considerare il suo lavoro come quello di qualsiasi pensatore o scrittore come una cassetta degli attrezzi per le mostre che farò e per i progetti che verranno. Secondo Glissant, solo partendo da un luogo preciso e concreto si può comprendere tutto il mondo. L’utopia non è un sogno, ma ciò che manca”.

 

Questo concetto si ricollega alla domanda che fa di solito sempre lui al termine di ogni intervista (Qual è il tuo progetto non realizzato?) che non è tanto un vuoto o un fallimento – tiene a precisare – ma l’aspirazione a un orizzonte ampio, impossibile da misurare e inconcepibile finché non viene annunciato”. Si interrompe, beve un sorso del suo cappuccino, scrive delle parole su un foglio (“Umberto Eco aveva detto che dovremmo salvare la scrittura a mano”) e poi ricomincia a parlare. La Biennale d’Arte gli è piaciuta molto, in particolare la maniera in cui la curatrice Lokko è riuscita ad affrontare i temi della decolonizzazione e decarbonizzazione puntando coma mai prima d’ora i riflettori sull’Africa e sua diaspora. “Leslie Lokko parte da un’esperienza concreta, da un laboratorio esistente per costruire un laboratorio del futuro”. Quel laboratorio è l’Africa, il Paese anagraficamente più giovane del mondo e a più rapida urbanizzazione, con una crescita di quasi il 4 per cento all’anno, in gran parte non pianificata che va spesso a discapito dell’ambiente e degli ecosistemi locali. La curatrice ci fa partire da quell’esperienza per vedere come dialoga con noi, un noi che è il mondo”, precisa HUO che ribadisce questi e molti altri concetti anche durante le conversazioni che tiene una dopo l’altra in quella che fino a lo scorso anno era la Casa dei Tre Oci, a Giudecca, e che presto ospiterà, nella sua versione restaurata, il Berggruen Institute Europe.

 

Lo ascolto conversare con Giorgio Agamben, Francesca Bria, Rana Dasgupta, Marina Garcés, Carlo Rovelli e Lea Ypi. Tra il pubblico, ad un certo punto, arriva anche Anish Kapoor che ha scelto di vivere a Venezia acquistando Palazzo Mafrin, prossima sede della sua fondazione. Si parla, ovviamente anche di arte e del suo ruolo, e mi torna in mente una sua frase (che in realtà è di Gerhard Richter) che mi ha detto quella mattina al Danieli: “L’arte è una forma di speranza”. “È una frase che tengo a mente ogni giorno, dice prima di salutarmi, e credo che la varietà dei linguaggi delle arti contemporanee costituisca una delle più confortanti forme di resistenza al progressivo uniformarsi dei modi di vivere, grazie alla creazione infinita e formidabile di commistioni locali e alla capacità inesauribile di coltivare la diversità. L’arte ci dice che il cambiamento è possibile. Il periodo appena trascorso ci sta insegnando qualcosa. L’empatia e il coraggio di esprimersi risuonano ancora di più in un mondo alternato da continue tensioni, rivoluzioni e mutamenti climatici. Il consiglio che posso darvi? Di non sprecare mai il vostro tempo”.

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