Regole e doveri
L'uomo come stile argomentativo nella lezione sul “diritto alla felicità”
I tipi di Ares ripropongono una grande raccolta di conferenze divulgative del filosofo Emanuele Samek Lodovici, scomparso a soli 38 anni nel 1981. Una imprescindibile riflessione sulla ricerca e la pretesa del piacere nella società contemporanea
Il titolo di questa raccolta di conferenze divulgative di Emanuele Samek Lodovici (Una vita felice, Conversazioni con sette inediti, Edizioni Ares, 214 pp., 18 euro) è felicemente azzeccato. Non perché in questo saggio si trovino ricette per vivere felicemente, sarebbe un affronto all’intelligenza, al genio, alla vivacità di Samek. Non era tipo da Baedeker né da istruzioni per l’uso. Felice è stata la sua vita, pur precocemente interrotta a 38 anni, nel 1981, quando aveva appena vinto la cattedra di Filosofia morale, perché è stata utile. Io ci ho perso un professore da cui ho molto imparato e molto avrei ancora potuto imparare, e un amico. La filosofia italiana un protagonista non destinato alla parabola arbasiniana “giovane promessa venerato maestro, solito stronzo”. A proposito di stronzo, tra le pagine di questo libro ne trovate una dedicata al turpiloquio. “Non va rifiutato per delle ragioni che io ritengo moralistiche (le brutte parole), ma perché rappresenta il mondo attraverso pochi segni: gli organi sessuali sono pochi. Le possibilità semantiche degli stessi saranno al massimo venticinque. Ora, una persona, un giovane che ha a disposizione solo venticinque possibilità di conoscere il mondo si perde il mondo. Chi non ha le parole non ha le cose, se vogliamo strappare a una persona il mondo basta strappargli le parole con cui capisce quel mondo”. Con qualche eccezione, “il turpiloquio va usato quando è differenziato e personalizzato […], in media ogni venti giorni per avere la possibilità di lanciare un’ingiuria che è diversa da un’altra di venti giorni prima”. Quando gli chiesi la tesi su Dostoevskij doveva essere il ventesimo giorno: “Casotto, lei pensa davvero di poter dire qualcosa di nuovo su Dostoevskij? Perché non la fa su Chesterton?” “Ma è un umorista inglese, un giallista…” ribatto io. “S’, ma in quanto a filosofia qui (e con la mano fece un cerchio che abbracciava tutta la facoltà di Filosofia di Torino) qui gliela mette nel culo a tutti”. E Chesterton fu.
Ma c’è ben altro in questo libro, anche se il passaggio sul turpiloquio basterebbe per far capire lo stile argomentativo di Samek. E per lui lo stile è l’uomo. “L’esistenza è un teatro dove è indifferente la parte che abbiamo (la parte del cameriere o quella del principe), perché quello che è essenziale è come recitiamo la parte”. Che altro c’è, allora. C’è un’etimologia di responsabilità che non conoscevo: dal latino sponsus rebus, sposato alla realtà. Forse è inventata, ma è un’invenzione felice (tanto per insistere) che illumina da sé, senza tanti sofismi, il criterio con cui guardare e giudicare, ad esempio, il dibattito pubblico e politico. E poi c’è, soprattutto, una imprescindibile lezione sul “diritto alla felicità” e sul mutamento del concetto di diritto. “Quando si parlava di diritti (diritto al lavoro, diritto alla proprietà, eccetera) si intendeva una nozione attiva di diritto. Quando, per esempio, prima dell’Illuminismo, si parlava di diritto alla proprietà, si intendeva dire che il soggetto ha un diritto di darsi da fare per costruire una difesa rispetto al potere, una difesa anche economica che è quella della proprietà. Lo Stato ha il dovere di non impedire al soggetto questo diritto. Quando si parlava di diritto al lavoro si intendeva dire che ho diritto a trovarmi un lavoro e lo stato non mi deve intralciare nell’esercizio di questo diritto. Il diritto aveva una connotazione attiva. Era un diritto a fare. Ma poi questa nozione si rovescia […] i diritti sopra menzionati diventano diritto a che altri mi diano un lavoro, una proprietà, eccetera. Correlato a questo rovesciamento c’è lo Stato assistenziale moderno: il soggetto non è più colui che ha diritto a fare, bensì colui che ha diritto a ricevere dallo stato […] diritto a essere soggetti di una prestazione. E presto questa nozione di diritto alla prestazione si è riflessa su una delle chiavi di fondo della società antica: il diritto alla felicità. Gli altri mi devono fare felice. e se non mi rendono felice è un’ingiustizia. Se ho diritto alla felicità, ho diritto a non avere fastidi”. Traducete questo nei rapporti, nel matrimonio, nella famiglia… è un’ingiustizia se la moglie (o il marito) non fa il possibile per rendermi felice. Il figlio diventa un antagonista del genitore, un problema, e viceversa.
“Ma d’altro canto – prosegue Samek – tutta la natura umana si rivela come una tendenza naturale alla felicità”. Solo che dobbiamo constatare un paradosso: “Noi desideriamo la felicità, ma non siamo in grado di darcela, perché non ci sono tecniche per essere felici”. Affondando nel paradosso ne risulta che “la natura della felicità è la delusione”: la delusione per non aver raggiunto qualcosa e, quella più sottile, la delusione per averla raggiunta, “la delusione che sperimentiamo proprio perché otteniamo ciò che desideriamo”. “La seconda delusione è rivelativa del rapporto che l’uomo ha con la felicità, il ‘diritto’ che l’uomo ha alla felicità, è una propensione naturale a tale felicità, che è realmente possibile, ma che l’uomo da solo non può raggiungere”. C’è un corollario di questa posizione umana e di questa concezione di diritto, un corollario faticoso che Samek non nasconde ai suoi interlocutori: “Nella misura in cui vogliamo soltanto essere felici, non siamo neppure felici. Che cosa significa voler essere soltanto felici? Significa ammettere per sé soltanto il piacere. Significa che in linea di principio noi escludiamo dalla nostra vita qualsiasi tipo di dolore e la fatica di fare per gli altri gratuitamente. Ed essendoci resi insensibili al dolore e alla sofferenza ci siamo resi insensibili alla gioia”.
Oddio! Un altro teorico della fatica, del dovere e del macerarsi dell’obbedienza alle regole? Non offendiamo la nostra intelligenza con questi stupidi schemi. Il cattolico Samek era una persona libera, studiava De Sade e aveva un debole per Nietzsche, per lui le regole non erano un totem, ma piuttosto l’alveo di un fiume, la condizione per lo scorrere dell’acqua, della vita (quanto avrebbe da dire a proposito di argini di questi tempi). C’è un episodio, tra i tanti, che lo documenta. Torino, fine anni Settanta, Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche, un lunghissimo atrio che trasudava violenza dai tatze-bao e dai picchetti di extraparlamentari e che andava attraversato per salire al secondo piano dove c’era Filosofia. Arriva un operaio della Fiat, uno studente operaio, con la figlia di tre anni, deve parlare con Samek perché, non potendo frequentare per questioni di orario, il seminario obbligatorio per poter sostenere l’esame di Morale, deve concordare una relazione sostitutiva. L’operaio parla e Samek dice sì a ogni sua richiesta, e intanto guarda la bambina. All’ennesima domanda dell’operaio gli fa un sorriso a trentadue denti: “Lei faccia la relazione che vuole e me la consegni, ma la imploro, porti via questo angelo da questo luogo di perdizione”. Il suo amato Plotino non avrebbe saputo dire meglio.