A Monaco
Un'opera dura e forte. Michieletto va oltre la fedeltà formale a Verdi e lo esalta
L’Aida del regista veneziano è un teatro d’opera inteso come riflessione sull’esistenza, ma senza tralasciare l’emozione: un rigore intellettuale e una bravura tecnica spinta fino al virtuosismo. Lunghi applausi al Nationaltheater bavarese
Il primo pugno nello stomaco arriva insieme al Messaggero, che porta le notizie sui crimini di guerra dei barbari etiopi portando in braccio il cadavere di una bambina. E allora capisci per la prima volta perché Verdi abbia scritto per questo comprimario delle frasi così cariche di dolore. È Aida al Nationaltheater di Monaco, regia di Damiano Michieletto, teatro d’opera inteso come riflessione su quello che siamo, ma che non esclude l’emozione. Niente Egitto, ovvio: i primi due atti si svolgono in una scuola sgarrupata che serve da rifugio ai profughi di qualche guerra, mettiamo Bakhmut: neri squarci lasciano cadere dal soffitto della polvere nerastra da bombardamento appena finito. Negli ultimi due, la scuola è stata sommersa dai detriti e la scena è occupata da un’enorme montagna triangolare (eccola, la piramide!) di questi neri frammenti: le scene, al solito, sono di quel gran genio di Paolo Fantin. È un’umanità spaventata e impoverita che indossa galosce di gomma e giacche a vento di colori spenti (costumi, perfetti, di Carla Teti) e cerca di sopravvivere come può, con il solo conforto di una zuppa calda scodellata da Aida bullizzata da Amneris in un atroce tailleur melanzana, e qui la citazione è forse al colore prediletto dalle sciure bavaresi. Ramfis non è un sacerdote ma sta fra il boss mafioso e il capo paramilitare, insomma molto Wagner e non nel senso di Richard: dopo aver liquidato Amonasro a colpi di pistola nel terzo atto, nel quarto obbliga pure un’Amneris distrutta a fidanzarsi con lui infilandole a forza l’anello.
Altra mazzata sentimentale il Trionfo, che ovviamente non è la solita sfilata autunno-inverno di moda egizia ma una durissima, agghiacciante marcia di reduci tutti variamente mutilati tipo Grosz. Infine, processo “vero” a Radamès, con tanto di cancelliere al proscenio che verbalizza tutto con la tipica inflessibilità burocratica dei regimi tremendi. E poi un doppio di Aida bambina (sì, vero, un po’ déjà vu, ma ci si scioglie) che gioca a palla con papà Amonasro e, nel finale, le comparse che mimano attimi di felicità domestica e borghese mentre sotto la fatal pietra Aida e Radamès agonizzano nel rimpianto di quel che poteva essere e non è stato, come prima o poi tocca fare a tutti noi. Se questa nuova produzione (drammaturgia di Mattia Palma e Katharina Ortmann) si inserisce nel filone delle Aide contemporanee e pacifiste, come per esempio quella di Robertino Carsen a Londra, lo porta però alle estreme conseguenze con rigore intellettuale e una bravura tecnica spinta fino al virtuosismo. È certo possibile e anche legittimo non essere d’accordo sulle premesse di questa regia, ma per non apprezzarne la realizzazione bisogna davvero avere gli occhi foderati di Bratwurst. Uno spettacolo duro, forte, riuscitissimo. Anche arbitrario? Sì, se si sceglie la fedeltà formale, no se ci interessa quella sostanziale. Non è la solita Aida, ma sicuramente è Aida.
Parte musicale non a questo livello ma nel complesso apprezzabile, a cominciare dalla direzione raffinatissima senza diventare autoreferenziale di Daniele Rustioni, che sul podio fa sempre, anche lui, teatro. Coro e orchestra eccellenti ma senza quel je-ne-sais-quoi di verdianità doc e dop che si sente, mettiamo, alla Scala. Elena Stikhina non ha esattamente la vocalità che noi italo-padani ci aspettiamo da Aida e il do acuto dei “Cieli azzurri” è fortunoso (si tratta comunque della nota più carogna scritta da Verdi), però il personaggio c’è tutto, convinto e convincente. Brian Jagde ha una gran voce un po’ plastificata come molti tenori yankee delle ultime generazioni, ma con acuti squillanti, miracolo, e non canta piano nemmeno se lo ammazzano, anzi nemmeno quando lo ammazzano. Quanto a Clémentine Margaine, arrivata in corsa a sostituire una collega, la sua tendenza a strafare è pericolosa: l’Arena di Verona è più giù, scendendo dal Brennero. Alla replica di domenica, il pubblico bavarese non ha fatto un plissé per la regia, altro che vergogna! povero Verdi!, e anzi ha applaudito a lungo.