(1933-2023)
Così Cormac McCarthy ha ampliato i confini del nostro mondo
Dalla tragedia greca ai B-movies, lo scrittore americano sapeva attingere con ugual fecondità tanto alla tradizione narrativa quanto alle scienze dure. Tornare ai suoi romanzi e drammi significa esporsi alla sua vasta energia propositiva
Non è impresa da pigliare a gabbo descrivere fondo a tutto l’universo, scriveva Dante addentrandosi nelle regioni gelate di Cocito, esprimendo la sfida ultima che coinvolge ogni artista autentico. E non è destino comune in tale lavorio essere paragonato ai tragici greci, vincere il Pulitzer per la letteratura e scrivere una sceneggiatura per un film candidato al premio “Ma che cazzo” di Mtv. In Cormac McCarthy tutto questo conviveva in un tutt’uno che sapeva attingere alla tradizione narrativa, ultimamente alle scienze dure e persino ai B-movies. Nel corso degli anni e in un profluvio delle ultime ore alla notizia della sua morte, le citazioni preferite dalle sue opere da parte di scrittori, critici, lettori hanno spaziato e spaziano dall’elogio di semplice un pozzo di pietre nel quale pare condensarsi tutto il solido, semplice senso della bontà della creazione contrapposta alla ferocia del nichilismo omicida, alla lirica straziante semplicità degli scambi tra padre e figlio in un’America post apocalittica, novelli Enea e Ascanio che portano il fuoco – “Se tu morissi vorrei morire anch’io. Per poter stare con me? Sì. Per poter stare con te. Ok” – all’ironia feroce, come un sogghigno di sbieco o una banalità pedissequa buttata lì – “Era morto?” “Lo spero per lui, l’abbiamo seppellito”.
Chi scrive ricorda le gomitate col proprio padre, con un sorrisone beato nel buio del cinema per le battute spietate di Cameron Diaz in “The Counselor”. Ogni grande voce letteraria è al contempo sintesi, critica e la rielaborazione più forte a quanto la precede e in essa confluisce. Nelle sue opere riecheggiavano Faulkner, Hemingway, O’Connor, l’epica picaresca di Twain, il western non restava mitologia del passato ma una dimensione del presente, in cui ci si può spingere senza ritorno alla prima scelta radicalmente sbagliata. Nell’ultimo dittico, Il passeggero e Stella Maris egli ha proseguito ancora nel ritratto del collasso della società contemporanea, all’ombra della distruzione tecnologica collettiva, e del collasso psichico individuale.
E forse la citazione più bella e intensa è stata recentemente sottolineata con finezza da Luca Doninelli in un passaggio dello stesso Passeggero, che può quasi passare inosservato, e nel quale invece McCarthy stava parlando di noi tutti: “Mangiare un cheeseburger decente in un ristorante pulito è impossibile. Quando iniziano a spazzare il pavimento e a lavare i piatti col detersivo è praticamente la fine”. Vita e arte sono questa contaminazione, questo spingersi oltre i confini nei quali cerchiamo di racchiudere la nostra conoscenza del reale. Perciò tornare ai suoi romanzi e drammi vuol dire esporsi con sollievo all’energia elettrica di chi i confini espressivi li ha sempre varcati, un esercizio della fatica e dell’intelligenza – per il quale occorre sempre fare i complimenti a traduttori come Montanari, Testa, Balmelli – che è uno dei più intensi piaceri della lettura, anche perché ci mostra quanto piccolo sia il mondo che siamo capaci di nominare a differenza del suo, dei suoi, dalla miserabile vita nei pressi del fiume di Suttree al lessico dei sommozzatori tra i cadaveri ne Il Passeggero, una professione cui, come i razziatori di morti sul Tamigi de Il Nostro Comune Amico di Dickens, è facile attribuire una valenza metaletteraria.
McCarthy si è tuffato nelle vastità e profondità nelle quali paolinamente viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, convinto che l’inconscio sia sempre più antico del linguaggio, una sapienza eschilea che gocciola nel soffrire notturno. E al centro stesso di questo vortice è possibile udire – forse – una voce, la stessa che variata si rivolge prima dal nero omicida nel carcere di Sunset Limited e alla transessuale alcolizzata e abusata del Passeggero: “Se non fosse per la grazia del Signore, tu non saresti qui… se qualcosa non ti avesse amato non saresti qui”. Come in Sofocle o Isaia la profezia spira dal cuore della disperazione, in testimoni che quella contaminazione l’hanno subìta, abbracciata.