Odio le mostre - 4
Ode al marchese Ricci che ha ridato vita a Ugo Celada da Virgilio
L’esposizione al Labirinto della Masone visitabile fino al 17 settembre è un’occasione unica per riscoprire il pittore tanto novecentesco quanto lombardo e la sua “versione depurata della realtà imperfetta”
Odio le mostre ma senza la mostra al Labirinto della Masone quando mai, dove mai avrei capito Ugo Celada da Virgilio. Perché i quadri di questo pittore molto novecentesco e molto lombardo (nato appunto a Virgilio di Mantova nel 1895, vissuto a Milano, morto a Varese nel 1995, pochi mesi prima di compiere cent’anni) si trovano per lo più in case private. Alcuni proprio a casa degli eredi Celada. Tanta privatezza ha una borghese, domestica bellezza ma dice pure la pubblica incomprensione sofferta da colui che ha ottenuto, sul versante dell’arte sorretta dal contribuente, solo qualche parete nel museino della landa natale, il Virgiliano di Pietole, e ci mancherebbe. La mostra di Fontanellato è dunque, fino al 17 settembre, un’occasione unica. Io poi mi ero formato la pigra convinzione che Celada fosse pittore di un solo quadro, il “Ritratto d’uomo con occhiali”, olio su tavola senza data ma a occhio direi Anni Quaranta, 105x83 centimetri, molte volte ammirato e sempre ammirabile qui nella collezione permanente.
Uno degli acquisti geniali di cui era capace Franco Maria Ricci. Se a differenza di me non lo avete conosciuto, l’unico vero Divino Marchese (Sade era marchese come Ricci e però Demoniaco), mi dispiace per voi. Se non sapete di lui, dell’ideatore del gigantesco Labirinto ovvero della più importante e audace impresa estetica privata dell’Italia odierna, vi meritate Fedez o Fazio o Fuksas, a scelta. Uomo di gusto assoluto, di occhio assoluto, di libertà assoluta, in grado di vedere la bellezza dove gli altri, gregari capaci di estasiarsi soltanto in scia, non vedevano nulla. Ignoro l’anno in cui Ricci comprò il “Ritratto d’uomo”, di sicuro fu in un tempo, in un decennio durante il quale Celada non se lo filava nessuno. Così la presente mostra al Labirinto è un riconoscimento doppio: per il pennello di Celada e per il fiuto di Ricci.
L’ho sempre chiamato “Il Commendatore”, l’uomo con gli occhiali del ritratto senza data e però Anni Quaranta. Per fattezze, posa, abbigliamento. Soltanto in mostra ho scoperto che Celada ai commendatori era affezionato, o forse erano i commendatori affezionati a lui. Alla sua “versione depurata della realtà imperfetta” (come scrive Cristian Valenti nel raffinatissimo catalogo), alla sua nitidezza, alla sua esattezza. Nitidezza ed esattezza caratteristiche, quattro secoli prima, dei ritratti del Parmigianino che, guarda caso, qui a Fontanellato lavorava e che personaggi di Fontanellato immortalava. Penso al sommo ritratto di Galeazzo Sanvitale (non commendatore bensì condottiero) conservato a Capodimonte… Qui ci si soffermi invece davanti al “Ritratto del commendator Pietro Belloli”, un benemerito ancora giovane, neri capelli ondulati, neri occhiali tondi, cravatta a strisce, fazzoletto nel taschino e mani curatissime (le mani e le unghie sono specialità di Casa Celada). Commendatore era anche Angelo Motta, l’uomo che fece del Natale milanese il Natale italiano, che trasformò un dolce locale in dolce nazionale: ovviamente il panettone.
L’industriale era inoltre cavaliere del lavoro, dunque una somma di operosa lombardidad, per dirla con Gianni Brera. Arrivato a Milano dalle nebbie di Villa Fornaci, frazione di Gessate, così come Celada arrivava dalle nebbie di Cerese (“un villaggio satellite, un nulla” scrive il terribile Ceronetti in “Albergo Italia”), frazione di Virgilio. Due padani nati fuori mano. Nella capitale morale e materiale fecero in diverso modo, e diversa quantità, fortuna. Di un campione dell’Italia che si rifece grande dopo l’avvilimento della guerra, il ritratto a olio esprime la prosperità, la dignità, l’intima soddisfazione, il vigile impegno: “Spirito intraprendente seppe dal nulla assurgere alle più alte mete nel campo dell’industria dolciaria...”. Era quella una borghesia, un’imprenditoria che credeva in sé stessa e intendeva restare. E con questi ritratti è restata. Nulla come il ritratto pittorico proietta la personalità oltre i limiti della vita fisica. L’olio su tela sfida i secoli al contrario delle fotografie, destinate all’obsolescenza. Gli eredi di chi nel Novecento ha sperato di immortalarsi rivolgendosi a un fotografo si ritrovano fra le mani carte tristi, piegate e ingiallite. Mentre la mostra del Labirinto riaccende i riflettori su un’arte che nell’ombra dei salotti lombardi si è conservata perfettamente e oggi manifesta i migliori valori novecenteschi come se il tempo non fosse trascorso. Innanzitutto il valore del lavoro: sul tavolo di Motta c’è il Corriere della Sera con una pagina pubblicitaria del famoso panettone.
Infine i nudi, che in verità sono nella prima sala ma talmente belli da costringere a tornare indietro quando si è visto tutto e si dovrebbe uscire. Per una forma di fulminante nostalgia. Odio le mostre perché sono piene di gente vestita male ma a volte nei quadri le donne sono talmente svestite bene da meritare un piccolo sacrificio. I nudi di Celada lo meritano eccome, anche per via della moglie che spesso gli fece da modella. Ci ho messo un quarto d’ora per capire qual è il mio preferito ed eccolo: “Nudo su velluto rosso con tenda verde”, tela dipinta fra Venti e Trenta. Valerio Terraroli scrive di “nudo classico ma in chiave borghese”. Sì, in questo e negli altri nudi ritroviamo le veneri callipigie (da tal punto di vista la signora Celada era molto dotata), ritroviamo Giorgione, ritroviamo Tiziano, e al contempo sentiamo le novità di Pitigrilli e Cagnaccio di San Pietro. Con la prefigurazione, in certi quadri (“La smorfiosa”, “Nudo disteso”), addirittura di John Currin... Ugo Celada da Virgilio morì a cent’anni a Varese, rinasce oggi a Fontanellato.