Il centenario e la memoria
La lunga vita di Stella Levi, impossibile da schiacciare sull'Olocausto
Le conversazioni della sopravvissuta alla Shoah con Michael Frank in “Cento volte sabato” (Einaudi). Un racconto di sé che diventa autoanalisi, con la condizione di non parlare mai dei campi di sterminio pur evocandone la tragedia
Nel quartiere ebraico di Rodi (Juderia), dove “tutti sapevano tutto di tutti”, quando una ragazza, quasi sempre celibe, era angosciata o depressa veniva chiusa in casa per una settimana, ad acqua e brodino, in compagnia di un’anziana guaritrice, che pregava e agitava sulla sua testa un pugno di mumya (che si diceva fossero le ceneri dei santi ebrei portate dalla Terrasanta). Questa usanza, chiamata enserradura, veniva praticata anche dalla nonna materna di Stella Levi, figlia di Jeudà Levi e Maria Notrica, nata a Rodi nel 1923, deportata ad Auschwitz e a Dachau, sopravvissuta alla Shoah, e residente dal dopoguerra a New York, dove ha contribuito alla fondazione del Centro Primo Levi (“Egli aveva dato quello che aveva da dare. Non scriveva più perché aveva scritto tutto quello che aveva da dire. Era andato nelle scuole a parlare ai giovani. Era stato intervistato tante volte. Aveva finito il suo lavoro qui. Era pronto ad andarsene”). Quest’anno, il 24 aprile, pochi giorni prima del suo centesimo compleanno, ha ricevuto in ospedale l’onorificenza, conferitagli dal presidente Mattarella, di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Ci tengo a dire che accetto questo onore non come individuo, ma a nome di tutti quelli, ebrei come me, uomini, donne e bambini, che sono stati discriminati, in Italia e nei territori Italiani dalle leggi razziali volute dal fascismo. Rappresenta ai miei occhi un’assunzione di responsabilità storica da parte del paese che dette la cittadinanza alla mia famiglia proprio nell’anno della mia nascita”.
Stella Levi è la “protagonista” del libro di Michael Frank, Cento volte sabato (trad. di Marco Rossari, Einaudi, 252 pp., 19,50 euro): una lunga conversazione, sempre di sabato, durata 6 anni. Una sorta di autoanalisi e ricapitolazione di un secolo di vita, sollecitata e favorita da un ascolto rispettoso e domande sobrie da parte dello scrittore e giornalista, iniziata con una condizione: non parlare dei campi di concentramento e di sterminio. Stella Levi non ne ha quasi mai accennato nemmeno col figlio e i nipoti. Non vuole essere la sopravvissuta che racconta così tante volte la sua esperienza da farla diventare atrofica, distante, meccanica: “Non ha mai voluto essere una storyteller dell’Olocausto, calcificata, senza nuovi pensieri o prospettive, con quell’evento così centrale, troppo centrale, in una vita lunga e stratificata”. Con questo “racconto” vorrebbe mostrare che la vita degli ebrei non può essere schiacciata sul loro massacro. Eppure, dal capitolo 44 (p. 105) al capitolo 96 (p. 230), non parla praticamente, e inevitabilmente, d’altro: “Non volevo che questa esperienza diventasse parte della mia vita, cioè parte del mio carattere, del mio sangue. È accaduto a me, a una me diversa…”. Sostiene che “forse è arrivato il momento di tornare a parlare con uno psichiatra, ma lui non saprebbe che farsene di me”.
Negli anni Cinquanta ne vide alcuni ma si rese conto che “non sapevano che farsene di noialtri tornati dai campi, non potevano sapere senza esser mai stati lì…”. Ma ribadisce più volte che “forse puoi tornare indietro solo con la mente”. E lo fa raccontando della Rodi tra le due guerre, colonia italiana, della vita e degli odori, delle storie e dei sapori, di una comunità che a lei, già a quattordici anni, stava stretta. Non voleva essere schiava delle tradizioni, cucire con le sorelle un corredo per un matrimonio con un uomo che non avrebbe scelto lei, ma un sensale o la sua famiglia. Prese a frequentare professionisti e ufficiali italiani, più grandi di lei (di uno scoprirà che era ebreo). Amoreggiava e si concedeva con loro lunghe nuotate. Andare a studiare in Italia le sembrava il modo migliore per fuggire da quella che sembrava una gabbia dorata (fino all’introduzione delle leggi razziali e poi l’occupazione tedesca). La comunità di Rodi, a eccezione di qualcuno che fuggì subito all’arrivo dei tedeschi, era inconsapevole dei pericoli e sembrava ignorare quel che stava accadendo in Europa. Stella Levi dice cose pesanti che poi le sono apparse inspiegabili: “La guerra era in corso in un’Europa lontana, stavano accadendo cose terribili agli ebrei, ma sembrava che stessero in un altro mondo”; “quello che stava accadendo stava accadendo là, lontano da noi, dal nostro mondo. Stava accadendo a quegli ebrei, non a noi ebrei”; “anche quando deportarono gli ebrei da Salonicco, cinquantamila, nessuno ci disse niente. O la notizia ci venne nascosta”. “Forse non volevamo sapere. Non ce lo potevamo permettere”. E poi pone una domanda senza risposte: “Perché non ci siamo ribellati? Eravamo in centinaia e loro in pochi. Perché non abbiamo, perché non ho, pensato di reagire in qualche modo?”.
Alla fine Stella Levi si dice convinta di aver finalmente capito delle cose proprio raccontando la sua vita per tutti quei sabati a Michael Frank, e grazie alle sue domande. Rifacendosi a Walter Benjamin sostiene che il racconto offre un ammonimento umano e trasmette saggezza. E si chiede se però lei abbia “trasmesso saggezza”, perché, come ha letto in uno scritto di Peter Brook su Benjamin, la morte è la sensazione di tutto ciò che il narratore può raccontare: dalla morte egli attinge la sua autorità. Alla vigilia dell’uscita in italia del libro, Gabriele Romagnoli ha intervistato Michael Frank (I miei sabati con Stella Levi la sopravvissuta, la Repubblica, 3 maggio 2023) che si è lasciato sfuggire questa affermazione: “Presto andrò a Rodi in nome e per conto di Stella Levi, con parole sue”. Il 23 maggio, sulle pagine dello stesso quotidiano, appare una lettera di Stella Levi: “Nessuno può parlare per conto di un’altro, specialmente per conto di un sopravvissuto. I romanzieri possono inventarsi delle storie, un autore può scrivere una biografia. Ma nulla di tutto ciò autorizza a usare la voce di una persona come fosse la propria, di usare la sua vita per dire cose che non ha detto ma neanche per ripetere quelle che crede di aver sentito. (…) Durante la mia vita ho scritto, parlato, raccontato. L’ho fatto a mio nome. Se altri vogliono parlare, della mia storia personale o di quella collettiva della distruzione degli ebrei di Rodi che ho raccontato, possono farlo a proprio nome e assumersene la responsabilità”. Sembrerebbe addirittura una smentita di tutto il libro (che ha come autore Michael Frank). Del resto Stella Levi, a un certo punto (pag. 209), aveva detto allo scrittore: “Forse ti sorprenderà, ma non sono la persona più facile del mondo”.