Cancel Culture
Marx ha celebrato come pochi altri il colonialismo. Ma quasi nessuno se lo ricorda
Pochi sanno che il Moro esaltò i meriti della dominazione britannica in India, la quale aveva realizzato l’unica rivoluzione sociale che l’Asia avesse mai conosciuto
Sul Foglio del 18 maggio Giovanni Belardelli ha svolto considerazioni molto interessanti sulla cancel culture, i cui strali hanno colpito personalità come Thomas Jefferson e Alexander Hamilton, e da ultimo Winston Churchill, considerato un razzista e un colonialista. Belardelli ha illustrato assai bene come anche il nostro Giuseppe Mazzini non possa evitare le scomuniche della cancel culture, avendo egli affermato che il colonialismo europeo era uno degli strumenti di espansione della civiltà.
A queste considerazioni di Belardelli io vorrei aggiungere che anche Carlo Marx dovrebbe essere scomunicato dalla cancel culture. Ciò può sorprendere, perché di Marx ha avuto larga diffusione e fortuna la demonizzazione della borghesia che egli ha fatto nel Manifesto del Partito comunista. La borghesia – si legge in quel famoso testo – “ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo pagamento in contanti”. “Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato di illusioni religiose e politiche”.
Ma pochi sanno che Marx esaltò i meriti della dominazione britannica in India, la quale, egli diceva, aveva realizzato la più grandiosa e, a dire il vero, l’unica rivoluzione sociale che l’Asia avesse mai conosciuto. Non si doveva dimenticare – scriveva Marx – che le idilliache comunità di villaggio indiane, sebbene potessero sembrare innocue, erano sempre state la solida base del dispotismo orientale; che avevano racchiuso lo spirito umano entro l’orizzonte più angusto facendone lo strumento docile della superstizione, asservendolo a norme consuetudinarie, privandolo di ogni grandezza. “Non si deve dimenticare che questa vita priva di dignità, stagnante, vegetativa, questo modo di esistere passivo, evocava per contrasto selvagge, cieche e indomabili forze di distruzione, e dello stesso omicidio faceva, nell’Indostan, un rito religioso. Non si deve dimenticare che queste piccole comunità erano contaminate dalla divisione in caste e dalla schiavitù; che assoggettavano l’uomo alle circostanze esterne invece di erigerlo a loro sovrano, e, trasformando uno stato sociale autoevolventesi in un destino naturale immutabile, alimentavano un culto degradante della natura, il cui avvilimento si esprime nel fatto che l’uomo, il signore della natura, si prostra adorando ai piedi di Hanuman, la scimmia, e di Sabbala, la vacca”. Certo, diceva Marx, nel promuovere una rivoluzione sociale nell’Indostan, la Gran Bretagna era animata dagli interessi più vili, e il suo modo di imporli fu idiota. “Ma non è questo il problema. Il problema è: può l’umanità compiere il suo destino senza una profonda rivoluzione nei rapporti sociali dell’Asia? Se la risposta è negativa, qualunque sia il crimine perpetrato dall’Inghilterra, essa fu, nel provocare una simile rivoluzione, lo strumento inconscio della storia”.
Il carattere storico progressivo del colonialismo non poteva essere celebrato con maggior forza; e tutti coloro la cui cultura è stata influenzata in varia misura dal marxismo, non dovrebbero mai dimenticarlo.