il foglio del weekend
I grandi nuotatori della letteratura
Da Omero a Jack London, i dolci naufragi letterari, immersi nelle chiare fresche tragiche acque in cerca di ispirazione
Sin dall’infanzia ha avuto dimestichezza con l’acqua Katherine Mansfield (1888-1923), di cui quest’anno ricorrono cento anni dalla scomparsa. Nata a Wellington, in Nuova Zelanda, all’estremità meridionale dell’Isola del Nord, sullo Stretto di Cook, molto presto i suoi occhi si sono allenati a osservare i volubili colori di mare e cieli: “La baia di Crescent era nascosta sotto un bianco velo di bruma venuta dal mare… le dune bianche si perdevano in lontananza, l’acqua era calda: di un azzurro meraviglioso e trasparente, screziato d’argento” (“Sulla baia”, 1921). Bambina, avrebbe imparato a immergersi in quelle acque dalle rive sabbiose per imparare da sola come il corpo poteva stare a galla e muoversi agevolmente. Seppe descrivere con garbo quelle nuotate, attribuendole ai personaggi dei suoi racconti: “Restò a galleggiare sull’acqua, muovendo dolcemente le mani, simili a pinne, e lasciando che il mare cullasse il suo corpo magro e slanciato”. Katherine era minuta, ma il piacere di farsi cullare dalle onde marine, di nuotare, di leggere, di scrivere, diedero ali alla sua breve esistenza grazie al fatto che era esperta nell’arte di ascoltare, indispensabile in acqua e con la penna in mano. Fosse o meno consapevole del proprio destino incombente, il desiderio di bruciare le tappe, di vivere senza paura, dandosi completamente, la portò, a soli 15 anni, in fuga in Inghilterra attraverso l’oceano. Ventenne, il padre volle richiamarla accanto a sé e lei trascorse un mese e mezzo sulla nave che da Londra la riportava a casa. Avrà attraversato tempeste? Avrà sognato di lasciarsi scivolare in acqua dal ponte e dare bracciate poderose, ardite, fra onde alte? Non era lo stesso con la scrittura? Nuotare o scrivere per inabissarsi in se stessi, corpo e cuore, scrivere come un affondo di parole (e di bracciate) che va calibrato con perizia. Durante la guerra si trovava in Costa Azzurra, a Bandol, in una villa affacciata sul mare, battuta dai venti (“doveva esserci una burrasca come questa quando Shelley morì”, ebbe a scrivere nei suoi diari). Vi trascorre il capodanno del 1915. Alle sette del mattino, sotto un cielo di piombo, mentre fuori fa freddo, s’immerge in un mare bollente, per sfuggire ai fantasmi della sua mente “sempre sospesa sull’orlo della poesia” e triste. Katherine morì presto, a 34 anni, nuoto e addestramento al respiro non salvarono i suoi polmoni: malata di tubercolosi, scomparve nel 1923, quando Colette era nel pieno delle estati in Bretagna, dove sfidava le maree e insegnava il suo sport preferito al figliastro Bertrand. Le due scrittrici nuotatrici avevano un comune amico, lo scrittore Francis Carco, abituale frequentatore della casa di Colette a Rozven negli anni Venti, quando ormai la liaison con Katherine durante la guerra era già finita. Fra Katherine Mansfield e Virginia Woolf correvano soltanto sei anni di differenza: Virginia era più vecchia e le sopravviverà quasi vent’anni. Non erano propriamente amiche, troppo diverse nel carattere, nelle scelte, la prima passionale, irruente, l’altra più rigida nei rapporti interpersonali; si incontrarono una sola volta, eppure si tenevano d’occhio, e nella condivisa abitudine diaristica pensieri affini rimbalzavano dall’una all’altra. Curioso che la Woolf abbia scelto proprio l’acqua, tanto amata dalla Mansfield e da Colette, come elemento nel quale abbandonare la vita: il 28 marzo 1941, a 58 anni, si avviò verso il fiume Ouse, nel distretto del Sussex, poco lontano da Monk House, la sua casa. Entrò lentamente, incurante del freddo, non prima di essersi riempita le tasche di sassi per essere ben sicura di andare a fondo, lei che non sapeva nuotare. E si mise a camminare a passi risoluti, gli occhi fissi sulla superficie torbida, appena ondulata.
Quando lo scrittore è spettatore della natura e grande nuotatore, sa trovare in sé parole di poesia per spiegare la malia dell’acqua: “L’acqua non oppone resistenza. L’acqua scorre. Quando immergi una mano nell’acqua senti solo una carezza. L’acqua non è un muro, non può fermarti. Va dove vuole andare e niente le si può opporre. L’acqua è paziente. Ricordatelo, bambina mia. Ricordati che per metà sei acqua” (Margaret Atwood, “Il canto di Penelope”, da “Il mito del ritorno di Ulisse”). Tuttavia, possiede insieme la consapevolezza dei pericoli, per esempio nelle terre artiche dove gli orsi che nuotano sott’acqua non fanno rumore, e per difendersi bisogna portare con sé due bastoni bianchi, così da sembrare un tricheco, l’unico essere di cui hanno paura, ha raccontato la scrittrice canadese, cresciuta nei boschi. Ogni imprudenza in mare, nei fiumi, nei laghi, si paga a prezzo della vita, a meno che non si scelga volontariamente di annegare in acqua.
Omero diceva che l’acqua era “chiara, limpida, preziosa, desiderabile”. Orazio suggeriva come rimedio all’insonnia l’attraversamento del Tevere a nuoto per tre volte. Socrate era solito sedersi nelle vicinanze di una sorgente, quella del fiume Ilisso, che ispirava i suoi discorsi. Plinio il Giovane in giardino aveva fatto costruire una magnifica piscina ai bordi della quale intratteneva gli ospiti. Lo stesso fece l’imperatore Adriano, dedicando un tempio acquatico ad Antinoo, morto nel Nilo in circostanze misteriose. Leonardo da Vinci nel suo trattato sulle acque metteva in guardia descrivendo accuratamente il “modo di salvarsi in una tempesta e naufragio marittimo”, non dimenticando di illustrare come “l’omo debba imparare a notare” nei vari stili, in avanti (crawl) e all’indietro (dorso) e persino “riposarsi sopra le acque”. Ma ciò che ispirava la sua fantasia e maestria di scrittore era proprio l’aspetto inafferrabile dell’acqua. Perennemente insoddisfatto degli aggettivi, sulla pagina li metteva tutti perché dall’accumulo si cogliesse la volubile mutazione acquatica: “quando acra e quando forte, quando prusca e quando amara, quando dolce e quanto grossa o sottile, quando dannosa o pestifera, quando salutifera o tosculente… Salutifera, solutiva, stitia, sulfurea, salsa, sanguigna, malinconica, fremmatica, collerica, rossa, gialla, verde, azzurra, untuosa, grassa, magra… quando salata o discipita”. Leonardo era per altro un grande nuotatore.
Nel 1726 l’americano Benjamin Franklin si spogliò e si immerse nel Tamigi: nuotò da Chelsea a Blackfriars, esibendosi in evoluzioni in superficie e sott’acqua per la gioia di un pubblico assai divertito. Insegnò a nuotare a molti aristocratici inglesi, stupito da una mancanza tanto diffusa di familiarità con l’acqua. I poeti inglesi Byron e Shelley amavano indugiare insieme nelle acque tiepide del mare di Lerici: se il primo andava fiero della traversata a nuoto dell’Ellesponto, il secondo avrebbe perso la vita a Viareggio durante una tempesta. Non aveva mai imparato a nuotare seriamente perché in mare, finché aveva aria nei polmoni, gli piaceva starsene mollemente adagiato sul fondo sabbioso come un grongo pigro, e in quell’abbraccio acquatico percepiva una suggestione erotica. La medesima che forse spingeva Flaubert ad assecondare l’impulso irresistibile di buttarsi in acqua: sulla spiaggia di Trouville da bambino e poi, adulto, abitando sulla Senna, si tuffava due volte al giorno per liberare la mente affaticata da notti insonni passate a scrivere. Una vera e propria fornication avec l’onde, quando il corpo si fa strumento della mente e del piacere, come Paul Valéry, tanto attento alla percezione dei sensi, nei suoi quaderni definiva l’estasi in mare: “Tuffarsi nell’acqua, muovere il corpo dalla testa ai piedi in questa bellezza selvaggia e seducente, volteggiare nelle pure profondità del mare: ecco un piacere per me paragonabile solo all’amore”.
Siamo fatti per sette decimi di acqua: sentirsi acqua nell’acqua è per taluni gioia estatica e sovvertimento della coscienza nella più completa smemoratezza. Nuotare può essere salute, salvezza o dannazione, erotismo, meditazione, ma anche panico e tragedia per chi non conosce i corretti movimenti necessari per tenersi a galla. Johann Wolfgang von Goethe era un nuotatore formidabile, preferibilmente in acque fredde e in completa nudità, persuaso che dopo il vigore di una nuotata nei fiumi e nei laghi gelidi, la mente si aprisse all’immaginazione. Le sue convinzioni e abitudini furono tali da influenzare i medici a prescrivere simili pratiche di salute ai pazienti gracili. Goethe mantenne i suoi riti nel fiume che scorreva in fondo al suo giardino, a Weimar: si immergeva tutto l’anno, anche d’inverno, all’alba o in piena notte, a volte con un panciotto. Non perdeva occasione di insegnare i rudimenti del nuoto ai giovani studiosi tedeschi dalle schiene incurvate sui libri, cercando a ogni costo di contagiarli della passione natatoria degli aristocratici inglesi alla Byron. Eppure, per l’intera esistenza, fu ossessionato dal ricordo di persone annegate.
Lo stesso accadde a Francois-René de Chateaubriand, il quale nelle “Memorie d’oltretomba” (1848) ha raccontato il suo venire al mondo in una via buia e stretta di Saint Malo, sommerso dai muggiti di un mare in tempesta che coprivano le sue grida: “Non passa giorno senza che io riveda con la mente, pensando a quello che sono stato, lo scoglio sul quale sono nato, la camera in cui mia madre mi inflisse la vita, la tempesta il cui rumore cullò il mio primo sonno”. Proprio per questo suo indelebile ricordo non entrò mai in acqua ma volle essere sepolto dov’era nato, davanti al mare di Bretagna dalle maree tempestose, che evocano non soltanto miti e leggende, ma anche storie di naufragi e di morte: “Quasi tutti gli anni, vascelli si inabissavano sotto i miei occhi, e, quando scorrazzavo lungo le spiagge, il mare faceva rotolare ai miei piedi cadaveri di gente straniera, morta lontano dalla patria”.
Nuotare, tuffarsi, è armonia e bellezza: le immagini spettacolari di Leni Riefenstahl, immortalate con la macchina fotografica e la cinepresa durante le Olimpiadi di Berlino del 1936, mostrano corpi perfetti, bracciate subacquee tra grazia e potenza. L’istante che fissa per sempre lo scatto nella magia di un volo dal trampolino sospeso a mezz’aria, di un movimento invisibile, è qualcosa che toglie il respiro. Sarà stata questa sfida al cimento sportivo, questa suggestione di forme e luci, autentica competizione contro il tempo, a spingere lo scrittore americano Herbert Clyde Lewis a immaginare nelle acque dell’oceano la scena al ralenti di un nuotatore in attesa di soccombere, una leggiadra schermaglia in differita con il rischio di annegare?
Nel 1937, Lewis diede alle stampe un incantevole racconto dal titolo “Gentiluomo in mare” (recentemente pubblicato da Adelphi). Il protagonista, Henry Preston Standish, agente di borsa a Brooklyn, uomo perbene, durante la sua prima gita solitaria su un piroscafo incappa in un beffardo incidente: mettendo il piede su una macchia d’olio cade dal ponte della nave. Il suo primo pensiero gli chiude la bocca, non soltanto per non bere acqua: gridare aiuto a squarciagola non si addice a un gentiluomo. Ha inizio da qui una drammatica avventura di resistenza tra le onde, pazientemente accettata come tragica e inesorabile fatalità: Standish comincia a liberarsi dagli indumenti che lo appesantiscono, tiene d’occhio la nave che si allontana sempre più, con la speranza che qualcuno a bordo si accorga della sua scomparsa. Dopo aver nuotato invano per raggiungerla, senza mai perdere lo stile delle sue bracciate da provetto nuotatore, esausto dopo ore lentissime passate a tenersi a galla, lo sguardo fisso sulla parabola discendente del sole, realizza che la sua fine è vicina: “Quell’oceano smisurato, così sicuro dei propri poteri, gli ricordò che era solo un uomo spaventato lontano da casa. Ci volle un po’ prima che Standish si rendesse conto di aver smesso di ridere”. Solo quando il buio esplode all’improvviso insieme al suo cuore, prova per un istante l’illusione di una nuova nascita tra le braccia materne, “corpicino caldo tutto coperto di peluria”.
Era stata ben diversa, quasi un trentennio prima, la fine in acqua immaginata da Jack London nel romanzo “Martin Eden” (1909), una progressiva caduta nelle tenebre del nulla. Jack London nutriva un vero e proprio culto del corpo e della nuotata quotidiana. A Sonoma, tra le colline della California settentrionale, aveva fatto sbarrare il fiume da una diga per creare un bacino di trenta milioni di litri, e qui nuotava due ore al giorno, per poi sedersi nudo al sole. Ma, nella vita parallela dei romanzi, le cose – si sa – vanno diversamente, a meno che il racconto di London non si legga come un’autobiografia in terza persona. Il giovane marinaio Martin Eden, che ha toccato il successo nella scrittura e nella vita, ma non la felicità, nel finale inaspettatamente esiziale scende negli abissi del mare sino alla sua tomba (ma l’ipotesi del suicidio dello scrittore a soli 40 anni non fu mai comprovata): “Giù, sempre più giù, nuotò finché gambe e braccia si stancarono e non riuscivano più a muoversi. La sua resistenza cominciava a cedere, ma costrinse gambe e braccia a spingerlo ancora più in fondo, finché la sua volontà si spezzò e l’aria gli esplose fuori dai polmoni in un gran fiotto… Quindi arrivò il dolore e il senso di soffocamento. La morte non faceva male. Sentì un lungo frastuono e gli parve di precipitare giù per un’immensa e interminabile scalinata. Da qualche parte, lì in fondo, piombò nelle tenebre. Questo soltanto sapeva. Era piombato nelle tenebre. E nel momento stesso in cui lo seppe, smise di sapere”.