La recensione
Le emigrazioni del Manga
Le escursioni artistiche di Giorgio Manganelli, radunate da Andrea Cortellessa, pubblicate per Adelphi. "Onirismo e tortuosa, ostinata fantasia"
Manganelli si fece ecfrastico per diletto o, al più, per sedulità, come provano i testi, poi raccolti in Salons, commissionatigli da Franco Maria Ricci. Non posò mai a connoisseur o a cultore solo di quegli artisti che potessero indurlo a terebranti escursioni nelle regioni dell’onirismo delirante e depressivo contiguo ai suoi interessi d’anglista, e capace di alimentare speciose fantasie, utili nel far ravvisare, ad esempio, sicure affinità fra Füssli e Poe. Semplicemente gli arrideva «andar vagabondando ad adocchiare tele e disegni», tanto più che il suo essere letterato gli consentì spesso di «travalicare nell’immagine», ma anche di «abbandonarla, negarla, sgualcirla» senza troppa timidezza.
Come Mallarmé, Manganelli ha sempre ritenuto che il «senso troppo esatto» non possa che oscurare l’«accidentato e labirintico percorso» che si va costituendo nel nostro colloquio con le parole, quale che sia l’argomento. Sicché anche là dove è in azione «la macchina magica, allucinata, simbolica, riassunta nella tortuosa e ostinata fantasia» di un’opera d’arte, quanto s’imporrebbe sarebbe unicamente l’affabulazione delle parole. Il che trova conferma in quanto sostenuto da Andrea Cortellessa sul margine degli scritti d’arte di Manganelli (Giorgio Manganelli, Emigrazioni oniriche, Adelphi, pp. 348, euro 24) da lui collazionati: essere non di rado la sua prosa debitrice di similitudini prese a prestito dall’idioletto iconografico.
A dimostrazione di quanto l’arte, siccome la musica (lo testimoniano le conversazioni raccolte in Una profonda invidia per la musica), fungano da ampia riserva lessicale cui attingere per alimentare una libertà linguistica che rende la prosa manganelliana una glossolalia: non un proferimento di suoni inarticolati, ma un “parlare in glosse”, cioè in parole che attendono sempre di nuovo una spiegazione.
Nominare, denominare, rinominare secondo un’approssimazione continua: vengono così a comporsi epesegesi di fluttuanti, flebili architetture; ecfrasi di quadri corruschi e sanguigni ovvero evanescenti e «scheggiati d’afasia»; ipotiposi di sculture «acquattate in tenebricose cappelle», che, contra materiam, si rivelano elusive, inafferrabili. La congerie tanto mondana quanto onirica degli oggetti d’arte è d’un grado, a stento misurabile, diversa dal nulla: è un fantasma, «un umore dell’aria e delle cose» che sfida la parola a farsi complice; meglio, connivente. La connivenza infatti – precisa Manganelli – non è che «un’intesa taciturna col fantasma». Ovvero col linguaggio stesso, «luogo di deposito e di creazione di tutti i fantasmi», e, fra questi, di quelli che, nati da stremata invenzione o da allucinata raffinatezza, partecipano docili e compiaciuti «della danza, del transito, della fuga, dell’erratico trasvolare» di una écriture artiste.