FACCE DISPARI
Alessandro Orlandi, matematico editore: “Credo all'anima e al fato”
Matematico, editore o musicista? "Sono nasi finti, maschere che s’indossano. Mi definirei un uomo che si mette al servizio di qualcosa. Un museo, una casa editrice. L’importante è traguardare obiettivi più grandi della propria vita biologica, che così possano giustificarla"
Con hashtag e tag, sotto al nome di Alessandro Orlandi si potrebbe squadernare un campionario di eterogeneità: matematica, alchimia, fisica, wunderkammer, editoria, musica, renéguénon, ipazia, anima, margheritahack. Portatore di passioni dispari, vaga somiglianza con Dario Argento, naturale candidato per qualche nuova ‘Sinagoga degli iconoclasti’ alla Wilcock, Orlandi non ha investito nella monodia di un solo impegno i propri settant’anni di romano con ascendenze francesi, greche e croate. Laureato in matematica, ricercatore, già insegnante nello storico liceo classico Ennio Quirino Visconti, nel 2007 ha fondato la casa editrice La Lepre con un catalogo che “guarda al passato, interpreta il presente, corre per arrivare prima del fato” (il motto “praecurrit fatum” glielo suggerì l’illustre indologo Raniero Gnoli; il calembour Lepredizioni se l’è forgiato da solo).
Matematica prima passione?
No, la poesia. Scrivevo versi quand’ero bambino, poi crescendo racconti e riflessioni. Ho pubblicato saggi su alchimia, religioni, sincronicità, genius loci.
L’ultimo?
‘Lampi di tenebra. Manifestazioni del Kali-Yuga nel mondo moderno’ edito da Stamperia del Valentino.
Non ha il profilo tipico di un matematico.
Ho studiato matematica perché ero appassionato di filosofia: considerando che metà del pensiero novecentesco si fonda sulla logica, mi sembrava fondamentale per capire il mondo. Ho lavorato come ricercatore al Cnr poi ho insegnato al Visconti dove ho scoperto l’ex museo Kircher, ossia quanto ne restava nella sede del liceo ereditata dal gesuitico Collegio Romano. Avevo un master in museologia scientifica e ho curato per un ventennio la preziosa collezione.
Padre Athanasius Kircher fu una delle menti più versatili del Seicento: geologo, storico, inventore, medico, astronomo, decifratore assolutamente congetturale di geroglifici egizi e arcani cinesi. Non si fa prima a dire di cosa non si occupò, perché si occupò di tutto.
È stato l’ultimo sapiente universale, con qualche eccesso creativo di cui era consapevole. Gli piaceva stupire. Quando arrivai al Visconti trovai quella Wunderkammer abbandonata. Smembrata dopo il 1870 con l’esproprio statale, ne rimaneva la sezione scientifica con pezzi di immenso valore, da una sfera armillare a seicento strumenti di fisica ai reperti paleontologici.
È estinta la figura del sapiente universale?
Tra coloro che ho conosciuto vi si poteva flebilmente avvicinare Umberto Eco, ma le scienze moderne non consentono l’esistenza di un sapiente universale. Piuttosto lo surrogheremo con l’Intelligenza Artificiale, che può pescare in tutte le biblioteche, risolvere un problema di chimica, scrivere un romanzo alla Dostoevskij e cantare i Beatles. C’è solo un dettaglio: le manca l’anima. L’IA può attingere da tutte le banche dati ma non ha la prospettiva dell’anima, che dà i pesi relativi all’intelligenza del sapere.
Quanto la preoccupa?
Non provare inquietudine sarebbe irresponsabile. Penso alla perdita di milioni di posti di lavoro che non sarà necessario rimpiazzare, poi all’impossibilità progressiva di distinguere vero e falso. Temo infine il riduzionismo imperante, per cui i meccanismi umani vengono assimilati a quelli di una macchina con la definitiva negazione dell’anima.
Poiché pronuncia per la terza volta il vocabolo “anima”, rammento il successo del libro sulla scienziata Ipazia di Adriano Petta e Antonino Colavito: lo pubblicò La Lepre nel 2013 con prefazione di Margherita Hack, forse più ricordata per le opinioni teologiche che come astrofisica.
A lei mi accomunava l’amore per la libertà di pensiero che informa il mio progetto editoriale. Cito tra gli ultimi titoli: ‘Essere figlio di Oscar Wilde’, racconto inedito del secondogenito dello scrittore, Vyvyan Holland, costretto a cambiare cognome dopo il tragico scandalo che colpì il padre. E poi ‘Non c’è che dire. La libertà di espressione nella cultura italiana’, con contributi autorevoli sui temi della censura e dell’autocensura nel tempo della cancel culture e del politically correct.
Tra IA e cancel culture non sogna la resurrezione di un Giordano Bruno, di un pensiero che affronti il match con la ChatGPT con spirituale coraggio?
Sì, se penso al ‘De umbris idearum’ in cui Bruno opera un movimento del tutto opposto a quello dell’IA con un afflato verso l’alto di simboli e immagini. Non escludo una rivalutazione per contrasto del pensiero bruniano e rosicruciano, come degli scritti alchemici riletti da Jung. Potrebbe essere la reazione principale al trionfo dell’Intelligenza Artificiale, concepita da gente che ha una visione del mondo meccanicistica, fatta di scatole nere.
L’IA è priva di emozioni.
Stanno provando a simularle e già sono riusciti a dotarla di senso dell’umorismo. Si pensava fosse un discrimine e invece è superato, come sarà raggiunta la capacità di riprodurre, per esempio, l’esecuzione musicale alla maniera di un determinato interprete.
Lei continua a suonare?
Ho prodotto quattro video musicali che hanno ricevuto tanti premi.
Come si presenta: matematico, editore, musicista?
Sono nasi finti, maschere che s’indossano. Mi definirei un uomo che si mette al servizio di qualcosa. Un museo, una casa editrice. L’importante è traguardare obiettivi più grandi della propria vita biologica, che così possano giustificarla.
Quali autori l’hanno ispirata di più?
Il taoista Zhuang-zi, Platone e Musil con ‘L’uomo senza qualità’.